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Editoriale 92

La comunicazione sui media
11 - 17 luglio

19 luglio 2022

Le Big Tech vogliono davvero contrastare le fake news? Truman Show in Russia. Raccontare l’orrore in USA. Aborto, a caccia di fonti affidabili. Biden deve difendere la libertà di stampa. Il potere dell’algoritmo. La donna che inventò la storia russa. Paywall e disinformazione. Le campagne delle aziende petrolifere.

La Redazione


Le Big Tech vogliono davvero contrastare le fake news?


A giugno la vicepresidente della Commissione europea e Commissaria per i valori e la trasparenza, Věra Jourová, aveva annunciato un nuovo codice di condotta “rinforzato” sulla disinformazione, strumento reso sempre più urgente dalle campagne di propaganda del Cremlino sulla guerra nonché atte a destabilizzare le democrazie occidentali. Tuttavia - spiega Politico - le istituzioni hanno ancora una volta ceduto terreno a favore delle piattaforme della Silicon Valley, cui è stato consentito di scegliere le sezioni del codice a cui vincolarsi. Di conseguenza, quasi tutte le big tech hanno rifiutato di aderire alle clausole di “user empowerment”, funzionale a limitare la distribuzione di fake news, di cui altrimenti gli algoritmi delle piattaforme divengono i principali divulgatori. L’obiettivo sarebbe stato quello di fornire agli utenti indicatori di affidabilità delle notizie, incentrati sull'integrità della fonte, per supportarli nel compiere scelte informate. Indicatori il cui sviluppo verrebbe affidato a terze parti indipendenti secondo criteri trasparenti, apolitici, imparziali e indipendenti consentendo audit da autorità di regolamentazione. La responsabilizzazione degli utenti è resa indispensabile a fronte del fallimento degli altri strumenti di fact-checking usati dalle piattaforme, che, per definizione, possono aver luogo solo dopo che la fake news si è già diffusa su internet. Gli analisti di NewsGuard hanno finora individuato oltre 230 siti web che diffondono disinformazione sulla guerra, inclusi think tank presuntamente indipendenti ma dalle modalità di finanziamento non note. Secondo il CEO di NewsGuard, L. Gordon Crovitz, le big tech - pur avendo aderito formalmente al nuovo codice - rimarrebbero in ultima analisi, complici indirette dei propagandisti russi essendosi opposte all’adozione di strumenti concreti per il contrasto alla disinformazione dilagante.



Truman Show in Russia


Cosa provereste se per anni foste stati convinti di qualcosa rivelatosi poi sbagliato? Quale senso di inadeguatezza vi sentireste addosso una volta scoperto che ciò a cui vi aggrappavate era una mera falsità? A far riflettere su questa condizione è la storia, raccontata da Politico, di Anastasiia Carrier: una giovane donna russa che per anni ha creduto alla propaganda sovietica, finché non si è trasferita in America ed è diventata giornalista. Una vicenda che spiega come l’influenza mediatica del Cremlino abbia da sempre avuto un forte peso sulla popolazione, tanto da creare dei veri e propri bias cognitivi. Nel racconto di Anastasiia si può leggere come tutta la delusione provenga da una falsa aspettativa e dalla necessità di credere in qualcuno. La sorte ha voluto che quel qualcuno fosse Vladimir Putin, capace di creare una bolla comunicativa difficile da scalfire e da combattere internamente. Anastasiia ha vissuto proprio questa dicotomia tra l’essere inserita in una gabbia di cristallo conformandosi, un po’ per paura e un po’ per ignoranza, a quanto raccontato dal governo russo, e dall’altra vivere con occhi distaccati le politiche del suo paese d’origine, leggendone così contraddizioni e bugie. Come nel caso della guerra russo-ucraina di cui i cittadini russi non hanno ben chiare spesso e volentieri le dinamiche e talvolta continuano a pensare che la Russia non stia conducendo una guerra, bensì una semplice operazione militare quasi incruenta per liberare i suoi fratelli ucraini dall’Occidente e dai nazisti in Ucraina (vedi Editoriale 73). Ed è proprio nel conflitto russo-ucraino che si può vivere questa ambivalenza dove il ruolo dei media, tradizionali e non, racconta effettivamente la vera natura di un paese che, partendo proprio dal tipo di informazione che adotta rispetto alla popolazione, può considerarsi liberale o meno (vedi Editoriale 84).



Raccontare l’orrore in Usa


Le stragi negli Stati Uniti continuano a mettere alla prova i media. Un ulteriore problema rispetto a quelli legati alla narrazione di eventi del genere (vedi Editoriali 85 e 88) risiede nella frequenza con cui le sparatorie si verificano. E non è una questione da poco, come sottolinea il Washington Post, perché i numeri elevati (secondo il Gun Violence Archive negli Stati Uniti nel 2022 sono già avvenuti oltre 320 episodi di questo tipo, nei quali quattro o più persone escluso l’aggressore vengono ferite o uccise da colpi di arma da fuoco, e i dati di quest’anno sono al passo con quelli del 2021, considerato il peggiore da questo punto di vista) non rendono possibile un’adeguata copertura delle singole sparatorie. Di conseguenza diventa necessario stabilire delle priorità, e in questo compito tutt’altro che facile entrano in gioco fattori come il numero di vittime e feriti, il luogo dove è avvenuto l’attacco (quelli dove le persone si sentono più al sicuro - come scuole ed edifici di culto - sono maggiormente “sensibili”), l’appartenenza degli obiettivi a etnie o religioni specifiche e le dimensioni di tragedia che la sparatoria assume. A ciò si aggiunge anche la densità di eventi da coprire, come la guerra in Ucraina e i processi per i fatti del 6 gennaio 2021, e la necessità di non riportare esclusivamente notizie tragiche o drammatiche (vedi Editoriale 91). In questo contesto, però, qualche medium sta sperimentando approcci diversi dal semplice raccontare una strage dietro l’altra: ABC News resterà a Uvalde per un anno, per seguire le indagini e i tentativi della comunità di riprendersi dallo shock, mentre la CNN ha dato vita al canale Guns in America dedicato all’impatto del business delle armi. Il problema della copertura di tutti gli eventi di questo tipo non è risolto, ma dove non si può andare in estensione è possibile cercare di andare in profondità e provare comunque ad arricchire un dibattito che rischia di diventare sempre più sterile e di rendere le stragi ancora più frequenti e difficili da coprire.



Aborto, a caccia di fonti affidabili


Negli Stati Uniti, dopo l’abolizione della sentenza Roe vs Wade, i media - oltre a capire come trattare l’argomento dell’aborto (vedi Editoriale 90) - dovranno anche fare i conti con la difficoltà di reperire fonti affidabili e spesso dovranno fidarsi di un’unica voce coraggiosa, tralasciando alcune regole del buon giornalismo. Come spiega NiemanLab in un articolo di opinione, molte storie sull’aborto forse non verranno mai raccontate. Una di queste, però, negli ultimi tempi è uscita allo scoperto e ha indignato il mondo intero: si tratta della notizia della bambina di dieci anni rimasta incinta dopo uno stupro, costretta a scappare perché nello stato dell’Ohio era entrato in vigore il divieto di aborto anche in casi di incesto o violenza sessuale. Il problema del raccontare questo terribile fatto è stato prima di tutto verificare le fonti, poiché l’unica persona intervenuta a riguardo è stata la dottoressa Caitlin Bernard, un’ostetrica-ginecologa di Indianapolis in una clinica per l’interruzione volontaria di gravidanza che aveva avuto in cura la bambina dopo che un suo collega in Ohio le aveva chiesto aiuto. La notizia è stata quasi subito ripresa dai giornali di tutto il mondo ma, parallelamente, molte testate americane - dal Wall Street Journal al Washington Post - si sono mostrate caute nel riportarla in quanto, a parte la dottoressa, non vi erano altri riscontri in merito alla vicenda. E molte altre hanno dichiarato che si trattava di una fake news. Solo dopo qualche settimana è arrivata anche la conferma da parte della polizia di Columbus circa la notizia dello stupro (dopo la confessione dell’aggressore), che coincideva con la versione raccontata dalla Bernard. Questi episodi saranno sempre più frequenti e i giornalisti americani spesso dovranno affidarsi a un’unica fonte, naturalmente assicurandosi che i racconti siano accurati e veritieri. Considerando che dopo l’abolizione della legge Roe vs Wade molti pazienti, medici e volontari potrebbero essere arrestati, le testate americane dovranno affrontare tutta una serie di rischi e vincoli in più per portare alla luce fatti che invece vorrebbero essere tenuti nell’ombra.



Biden deve difendere la libertà di stampa


Nel suo viaggio in Arabia Saudita, Biden non ha affrontato il tema della libertà di stampa, mentre Obrador non ha menzionato la questione dei dodici reporter uccisi quest'anno in Messico, rendendolo il paese più pericoloso al mondo per i giornalisti che non sia una zona di guerra. Come sottolineato dal Columbia Journalism Review, lo stato di minaccia in cui versano i giornalisti ci riporta al caso di Shireen Abu Akleh, cittadina statunitense e importante giornalista di Al Jazeera che è stata uccisa a maggio mentre raccontava di un raid israeliano nella città cisgiordana di Jenin. Dopo la sua morte si è concluso che la giornalista fosse stata colpita da un soldato israeliano e la CNN ha persino suggerito che fosse stata presa di mira. Israele ha insistito sul fatto che Abu Akleh sia stata uccisa da un uomo armato palestinese o dal fuoco incrociato israeliano in uno scontro a fuoco. Il Dipartimento di stato statunitense ha tratto la conclusione che non ci sia ragione di credere che gli spari siano stati intenzionali, ma piuttosto “il risultato di tragiche circostanze” durante il raid di Jenin. Tale argomentazione non è stata ritenuta credibile né dai senatori democratici statunitensi né dalla famiglia della vittima. Ricordiamo, inoltre, Jamal Khashoggi, dissidente saudita ed editorialista del Washington Post assassinato da agenti dello stato saudita nel consolato del Paese, nel 2018. L'amministrazione Biden ha pubblicato una valutazione dell'intelligence statunitense che concludeva che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman aveva approvato personalmente l'omicidio di Khashoggi. Biden ha sanzionato diversi sauditi, ma non lo stesso MBS, per esplicite ragioni di realpolitik. Yasmine Farouk sul Times sottolinea che, se Biden non esprimerà il proprio sdegno agli israeliani per l'uccisione di Abu Akleh, sarà più facile per i funzionari sauditi liquidare lo sdegno degli Stati Uniti per Khashoggi come un’ipocrisia. Secondo i critici, visitando il paese, Biden non solo lascia libero MBS, ma facilita attivamente il suo ritorno alla rispettabilità internazionale, come ha affermato questa settimana Fred Ryan - editore del Postin un articolo di critica corredato da un disegno di Biden che stringe una mano insanguinata. L'équipe di Biden ha dichiarato che durante il suo viaggio avrebbe parlato di diritti umani con i sauditi e lui stesso ha affermato che le “libertà fondamentali” saranno oggetto di discussione anche in Israele e in Cisgiordania; chiedere a Biden di dare conto ai leader mondiali delle questioni relative ai diritti umani e alla libertà di stampa non è semplicemente un esercizio astratto di proiezione di valori, ma si tratta, invece, di rispondere delle proprie parole e azioni. Il Presidente americano ha fatto della difesa della democrazia all'estero un elemento centrale della sua politica estera e la libertà di stampa è un elemento centrale della democrazia.



Il potere dell’algoritmo


Che i dati siano ormai una risorsa di inestimabile valore non è una notizia dell’ultimo minuto, ma una questione che ancora non ha una risposta univoca è quanto le grandi piattaforme con i loro algoritmi possano davvero influenzare le scelte dei loro utenti. Wired ha presentato a tal proposito il progetto Algocount (abbreviazione di algorithm accountability) studiato da un gruppo di ricercatori italiani con l’obiettivo di rendere visibili i processi degli algoritmi dei maggiori social network. L’output generato da Algocount è inedito: una collezione di immagini generate automaticamente dai dati della ricerca che entreranno a far parte dell’archivio del Museo nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. Dallo studio è emerso che le forme di polarizzazione generate dalla raccomandazione automatica sarebbero più deboli di quanto si possa pensare perché non orienterebbero i comportamenti degli utenti in maniera definitiva. Il pericolo in agguato, però, è la radicalizzazione su alcuni temi che può minare un rapporto sano e costruttivo con i social. L’obiettivo di Algocount, quindi, è mantenere vivo l’interesse sul potere dei dati e sulla policy delle big tech per far sì che la fruizione dei contenuti sia sempre meno passiva e più consapevole. Non solo, l’auspicio dei ricercatori è anche quello che gli utenti, essendo più informati, non siano più trattati come un semplice numero che darà profitto alla piattaforma. È giunta l’ora, dunque, di un rapporto di reciproco impegno tra utente finale, conscio dei processi tecnologici che lo riguardano e big tech, che dovranno dare risposte chiare su temi sempre più vicini al quotidiano (vedi Editoriale 90).



La donna che inventò la storia russa


Per anni, una donna cinese ha inventato le voci di Wikipedia sulla storia russa semplicemente usando l’immaginazione per raccontare decine di assedi, intrighi e condottieri mai esistiti. Come riportato da Vice e dal Post, in una lettera di scuse pubblicata sul suo profilo Wikipedia, l’utente ha confessato di essere una casalinga cinese e di non sapere né l’inglese né il russo. Zhemao – questo è il suo nome – ha iniziato circa dieci anni fa e ha utilizzato traduttori automatici e fantasia per inventare voci sulla storia russa. La donna ha agito su circa 206 voci, alcune delle quali sono state anche riprese e tradotte dalle versioni in inglese, arabo e russo di Wikipedia. John Yip, esperto dell’enciclopedia, ha spiegato che i contenuti erano di alta qualità e le sue voci erano tutte interconnesse e in grado di esistere in maniera indipendente. In questo modo, la donna avrebbe inventato da sola un nuovo modo di danneggiare Wikipedia. Nonostante la censura del governo cinese nei confronti di Wikipedia, la versione cinese risulta una delle dieci più attive del mondo grazie ai contributi di utenti da Taiwan, Hong Kong, Macao, Singapore, Malesia e dagli utenti cinesi immigrati all’estero. Non è chiaro da dove scrivesse Zhemao o se abbia utilizzato una VPN aggirando il “Great Firewall”. Zhemao ha scritto in mandarino su vicende storiche minori e, per questo, ha potuto agire indisturbata nella sua opera di invenzione della storia russa. Una vicenda che fa porre qualche domanda sul controllo della veridicità delle informazioni presenti su Wikipedia, o quantomeno sulla velocità di controllo delle stesse.



Paywall e disinformazione


Secondo Poynter. i paywall dietro le testate giornalistiche minano la democraziecontribuendo alla disinformazione. La testata in questione vorrebbe che tutti gli americani fruissero gratuitamente dei contenuti relativi alle elezioni. Per riprendere uno slogan del Washington Post svelato all'inizio dell'amministrazione Trump, “la democrazia muore nell'oscurità”; quando la gente non conosce l’attualità politica, infatti, un governo del popolo è impossibile. In tutto questo però i paywall sono sempre più frequenti, inseriti dai gruppi editoriali per ottenere quei profitti “sottratti” nel tempo - prima a sostegno delle organizzazioni giornalistiche - dai grandi colossi tecnologici come Facebook e Google (vedi Editoriale 80). Se da un lato questa strategia ha contribuito a sostenere i profitti delle organizzazioni giornalistiche in un momento in cui una sana stampa libera è assolutamente necessaria, dall'altro ha avuto il pericoloso effetto collaterale di lasciare all'oscuro la stragrande maggioranza degli americani che - viste e considerate le limitazioni - si informa attraverso i feed dei social media, le caselle di posta elettronica e le conversazioni con le persone fidate. Per dare la possibilità a tutti di avere a disposizione informazioni di qualità, serie e verificate è necessario che le testate giornalistiche traducano in azione le loro dichiarazioni di missione a favore della democrazia, rendendo magari già gratuita la copertura delle elezioni del 2022.



Le campagne delle aziende petrolifere


Le aziende petrolifere stanno cercando di aumentare la loro visibilità sui social media. Come riporta il Financial Times, di recente Shell ha comunicato di essere alla ricerca di un manager per il suo canale TikTok. La spinta sui social media arriva mentre le aziende americane e britanniche approfittano della carenza di forniture dovuta all'invasione dell'Ucraina da parte della Russia e tentano di convincere il pubblico che i loro prodotti sono una questione di sicurezza nazionale; aziende come la BP nel Regno Unito o la Chevron negli Stati Uniti hanno lanciato delle campagne per spingere l'espansione della capacità di produzione di petrolio come soluzione alla crisi. Ma la spinta alle pubbliche relazioni si inserisce anche nel contesto degli impegni assunti dai governi di tutto il mondo per l'eliminazione graduale dei combustibili fossili inquinanti e di una nuova attenzione da parte delle autorità di regolamentazione di entrambe le sponde dell'Atlantico sul modo in cui le aziende commercializzano le loro iniziative ambientali. Who Targets Me, un'organizzazione britannica che controlla la pubblicità politica sui social media, ha notato che prima dell'invasione della guerra in Ucraina, i post sponsorizzati da BP erano focalizzati sull'energia verde. Ma recentemente BP ha dichiarato che la sua campagna pubblicitaria era finalizzata a mettere in luce i suoi progetti futuri. Sembra che per il momento questi progetti siano stati accantonati. La guerra in Ucraina ha certamente sconvolto i mercati energetici, ma non dovrebbe interrompere la transizione verso l'energia pulita.

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