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Editoriale 25

La comunicazione sui media
01 - 07 marzo

9 marzo 2021

La ripartenza mediatica di Trump e l’eredità di News Corporation. L’addio di Zingaretti su Facebook, un’analisi. Erdogan e Modi contro i social media. Twitter: prosegue la lotta alle fake news.

La Redazione

· Dopo il silenzio - forzato - sui social negli ultimi mesi (vedi Editoriale 17), Trump è tornato nelle scene politiche prendendo parte al CPAC (Conservative Political Action Conference) presentandosi nuovamente come principale forza all’interno del Partito Repubblicano. Come riportato dal Washington Post, il discorso di Trump, iniziato con un attacco nei confronti del presidente Biden, si è poi concentrato su un monologo narcisistico nonostante i suoi consiglieri gli suggerissero di non parlare più delle elezioni del 2020. Il sondaggio YouGov-Ethics and Public Policy Center di gennaio sugli elettori di Trump ha dimostrato che gran parte dei suoi vecchi elettori sono molto meno propensi a votarlo, individuandolo non più come leader giusto e carismatico ma piuttosto come una figura distante che “sentenzia nella sua follia”. È però evidente che, nonostante la mancanza di supporto elettorale, Trump rappresenta ancora l’unico valido candidato repubblicano, continuando ad essere una figura di punta anche per Fox News (vedi Editoriale 16) che, nonostante vieti ai suoi conduttori di intervenire in eventi schierati, ha deciso di sponsorizzare per 250.000 dollari la CPAC e alcune delle sue personalità. Gli Stati Uniti hanno intrapreso da quasi due mesi la “cura Biden” ma il mondo repubblicano sta già pianificando una sua riorganizzazione per tornare unito e convincente nel 2024 con l’obiettivo di dominare la scena politica e mediatica a qualsiasi costo, Trump o non Trump.


· The Economist racconta che, rispetto a un decennio fa, Rupert Murdoch festeggerà il suo 90esimo compleanno in tranquillità. Difatti, se due lustri fa gli investigatori stavano setacciando la sua azienda, News Corporation, oggi le cose sembra stiano andando meglio: Fox News (vedi Editoriale 9) è il canale via cavo più popolare d'America, e il mese scorso Murdoch ha costretto i giganti della tecnologia a pagare per collegarsi ai suoi contenuti. Il bello, però, potrebbe durare poco visto che la televisione via cavo è in rapido declino e la rete rivale, HBO, sta avanzando a passo spedito. Con la modernizzazione delle aziende e la devoluzione del potere ai figli di Rupert, Lachlan e James, gli investitori sono tornati. Di pari passo, è necessario segnalare come, nonostante il successo, Fox - la società più grande, con una capitalizzazione di mercato di 22 miliardi di dollari - sia in bilico anche causa del calo della tv via cavo, operazione accelerata dalla pandemia in corso. Il problema di questa società, inoltre, risiede anche nella sua stretta relazione con la Casa Bianca di Donald Trump, cosa che ha generato ascolti record ma ha anche alienato gli inserzionisti e alcuni investitori. Per provare a mantenere in vita l’azienda, secondo molti Rupert Murdoch dovrebbe vendere anche i canali sportivi, ma il più grande impedimento alla “ristrutturazione del portafoglio” potrebbe essere Murdoch stesso. Se non lo farà lui, la prossima generazione sarà disposta a fare a pezzi l'impero? Gli asset in gioco sono tanto politici quanto economici e, tenendo conto che lo scopo dell'impero Murdoch è sempre stato quello di esercitare il potere oltre che di fare soldi, scorporarsi potrebbe essere una carta vincente.


· Nicola Zingaretti, tra i politici meno compulsivi sui social, si è affidato ad un post su Facebook per comunicare la decisione di dimettersi da segretario del Partito Democratico. Come descritto da Formiche, le reazioni in rete sono state tutt’altro che positive per l’esponente democratico: secondo i dati Arcadia, infatti, analizzando la keyword “Nicola Zingaretti”, il 47% delle menzioni è negativo contro il 21% positivo. Ancora più interessante il dato del sentiment prendendo in esame solo la pagina Facebook di Zingaretti: il mood positivo arriva al 18%, mentre quello negativo raggiunge quota 66%, portando alla luce il malcontento che da mesi si muove all’interno della base democratica. Il terreno della discussione è quello dei siti di informazione e dei blog con l’82%, mentre su Facebook e Twitter si svolge la parte restante. Nonostante la notizia a sorpresa, Zingaretti si è visto rubare la scena dall’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.  Come accaduto per l’addio a Palazzo Chigi (vedi Editoriale 22), il post di “solidarietà” è diventato in breve tempo il più virale nella categoria “politics”, triplicando le reactions del post di Zingaretti e confermando la grande abilità dell’ex premier di catturare l’attenzione degli utenti.


· La presidenza turca ha annunciato che il paese sta provando a costruire equivalenti nazionali dei cinque grandi player tecnologici Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft (GAFAM), dopo che Erdoğan ha più volte accusato le suddette piattaforme di “dittatura informatica” e di considerarsi “al di sopra della legge”. Secondo quanto riporta Formiche, Ankara ha messo nel mirino i cinque big, sostenendo che la loro influenza sarebbe stata decisiva in occasione delle rivolte di Gezi Park, quando tra il maggio e l’agosto 2013 migliaia di studenti e cittadini scesero in piazza, inizialmente contro la costruzione di un centro commerciale al posto del parco di Gezi a Istanbul, ma in seguito diventando un simbolo di contrasto alle repressioni del governo Erdoğan. Le proteste finirono nel sangue, con morti, feriti e arresti: il mondo ne venne a conoscenza proprio grazie alla rapidità con cui i social diffusero video e foto postati dai manifestanti, epitetati però dal governo “terroristi” e “saccheggiatori” nel tentativo di respingere le loro legittime preoccupazioni sulla privatizzazione degli spazi pubblici e sulla corruzione del governo. Erdogan non è il solo a pensare che i social media costituiscano una minaccia per i governi. Già Putin a Davos aveva criticato la crescente influenza delle aziende statunitensi di social media e aveva detto che il loro impatto sulla società le mette in concorrenza con i governi eletti, ponendo una sfida particolare alle "legittime istituzioni democratiche" nel prossimo decennio (vedi Editoriale 20). Primaonline riferisce che il presidente della Germania, Steinmeier, ha definito i social un pericolo per la democrazia e per questo occorre che i Paesi occidentali fissino regole chiare per gli operatori delle piattaforme di internet. Nel frattempo Facebook ha annunciato che in Germania comincerà a pagare gli editori dei media di informazione per le notizie riportare sulla sua piattaforma, così come già è successo in Australia (vedi Editoriale 23)


· Il governo indiano ha lanciato nuove linee guida per i social media, lo streaming video e l'editoria digitale che rendono le piattaforme come Twitter, WhatsApp e Facebook molto più responsabili del materiale pubblicato dagli utenti. Le aziende saranno obbligate a rimuovere o a rivelare la fonte di ogni post (rompendo quindi la crittografia su cui molti servizi di chat si basano per proteggere la privacy degli utenti) che a detta del governo provoca danni agli interessi nazionali o suscita disordini interni. Molti criticano il fatto che le nuove regole siano ampie e vaghe: non è chiaro se i giornali cartacei che pubblicano i loro contenuti online siano soggetti alle linee guida, nonché se e come queste ultime saranno estese alle aziende straniere. Le aziende sono preoccupate per quella che è di fatto un'erosione della privacy, perché potrebbe causare un esodo di clienti: quando WhatsApp ha comunicato ai suoi 530 milioni di utenti indiani che avrebbe potuto condividere alcune delle loro informazioni con la società madre Facebook, in molti hanno abbandonato il servizio, che ha frettolosamente annullato l’aggiornamento. Per gli organi di informazione digitale, che includono alcuni dei più feroci critici del primo ministro Modi, si tratta dell’ennesimo colpo da parte di un governo che ha già domato la maggior parte dei media.


· Twitter prosegue la lotta alle fake news sul Covid-19 attraverso un nuovo sistema di etichette e avvertimenti. La piattaforma, infatti, aveva registrato un incremento di contenuti disinformanti nell'ultimo trimestre del 2020 (Ansa) e aveva introdotto il Birdwatch (vedi Editoriale 24). Come riportato da Wired, d'ora in avanti i contenuti degli utenti verranno controllati da sistemi di revisione automatizzati e da veri e propri moderatori. I tweet ritenuti falsi o ingannevoli saranno contrassegnati da un'etichetta, che conterrà un link a informazioni corrette sul tema. L'utente riceverà un avvertimento da Twitter e un blocco del profilo per un numero limitato di ore. Dopo 5 etichette e quindi 5 avvertimenti la piattaforma potrà decidere se sospendere definitivamente l'account del trasgressore. In una fase delicata della pandemia, in cui circolano pareri fuorvianti riguardo le vaccinazioni anche tra chi non si occupa di salute pubblica o non è un medico, una scelta come quella di Twitter assume un'importanza decisiva nella lotta alla disinformazione. Più in generale, i mass media dovrebbero proporre contenuti il più possibile accurati e rispondere in modo diretto ai dubbi dei cittadini. Sfatare ogni singola notizia falsa forse può rivelarsi controproducente, come ha spiegato al Washington Post Emily Bell, direttore del Tow Center for Digital Journalism alla Columbia University, perché porterebbe un'eccessiva attenzione sulle fake news. La strada da seguire, quindi, è scegliere fin da subito gli interlocutori giusti, gli esperti e gli scienziati che possono veicolare notizie attendibili e mettere in guardia i lettori e gli utenti sulle campagne di disinformazione. È ciò che i social come Twitter e le testate giornalistiche come il Boston Globe (che ha recentemente condotto un'inchiesta sulla gestione dei vaccini da parte di Charlie Baker, governatore del Massachusetts) stanno cercando di fare per permettere alle persone di prendere scelte consapevoli che riguardano la loro salute.

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