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Editoriale 154

La comunicazione sui media
27 - 03 dicembre

5 dicembre 2023

La guerra tappa la bocca ai media. I problemi di fondo delle piattaforme social. Il dark side della COP28. Aggiungi un posto a tavola. AI’s Hall of Fame.

La Redazione


La guerra tappa la bocca ai media


Il conflitto in Medio Oriente (vedi Editoriale 147 ed Editoriale 150)  ha un impatto sempre più rilevante sui mezzi di informazione. Come riporta The Times of Israel, Shlomo Karhi, il Ministro delle Comunicazioni israeliano, ha proposto al governo di fermare qualsiasi finanziamento e accordo commerciale con il quotidiano Haaretz, accusando la testata di fare propaganda contro lo Stato di Israele. Karhi ha infatti guidato l'approvazione di regolamenti governativi d'emergenza che consentono al suo ministero di chiudere le trasmissioni di notizie ritenute dannose per la sicurezza nazionale. Il Ministero ha chiuso le trasmissioni in Israele del canale libanese Al Mayadeen, associato a Hezbollah, ma non ha ancora chiuso il canale Al Jazeera, con sede in Qatar, forse per non inimicarsi il governo, mediatore nei negoziati per gli ostaggi con Hamas. Secondo Kahri il giornale Haaretz mina gli obiettivi della guerra e indebolisce la resistenza della società. Tuttavia, gli esempi di tale atteggiamento sembrano provenire da articoli di opinione, che quindi non rappresentano la linea editoriale della testata, da sempre a favore dello sforzo bellico, anche se piuttosto critica nei confronti del governo. L'Unione dei giornalisti in Israele si è subito opposta alla richiesta di Karhi, affermando che potrebbe danneggiare la libertà di stampa nel Paese.



I problemi di fondo delle piattaforme social


Prosegue la guerra in Medio Oriente e con questa continuano le polemiche e le ostilità anche sui social media che, come già accaduto in precedenza con il conflitto tra Russia e Ucraina (vedi Editoriale 79 e 119), sono costantemente accusati di offrire verità fuorvianti sul conflitto e su ciò che è accaduto il 7 ottobre in Israele. Come evidenziato dal Time, nonostante le piattaforme come TikTok, che in queste settimane è al centro di una crisi reputazionale negli USA proprio in merito alla diffusione di disinformazione (vedi Editoriale 152), affermano di aver rafforzato il proprio impegno nella moderazione dei contenuti rimuovendo milioni di video che promuovono incitamento all’odio, terrorismo e disinformazione, i team dei moderatori non riescono a tenere il passo con l’enorme volume di fake news che in alcuni casi raggiungono milioni di visualizzazioni. Secondo Jeff Horwitz del Wall Street Journal, anche Meta sta incontrando ostacoli nella moderazione dei contenuti: gli strumenti automatizzati su Instagram hanno a lungo faticato ad analizzare diversi dialetti arabi, arrivando a censurare contenuti innocui e facendosi invece sfuggire messaggi di odio. In risposta a questi incidenti, Meta è stata costretta a scusarsi per i problemi di traduzione e ha riconosciuto che stanno lavorando per migliorare i propri algoritmi. Anche X, l’ex Twitter, non è immune da queste problematiche e infatti, secondo NewsGuard, profili “verificati” con la spunta blu producono un sorprendente 74% delle affermazioni false e infondate più virali della piattaforma. Ad ogni conflitto bellico, culturale o politico che nasce dobbiamo ormai essere consapevoli che gran parte di queste lotte vengono combattute sui social, indistintamente dal ruolo e dalla preparazione delle persone coinvolte. Se ne discute da anni ma la situazione non sembra cambiare.



Il dark side della COP28


Uno dei temi più delicati e dibattuti in occasione della COP28, che quest’anno ha visto i leader riuniti negli Emirati Arabi, è senza dubbio la disinformazione sulla crisi climatica. Secondo un rapporto pubblicato di recente sul New York Times, tra le principali fonti di fake news sul clima ci sono proprio le nazioni più influenti, tra cui Russia e Cina, i cui diplomatici partecipano al vertice, insieme ad aziende che estraggono combustibili fossili e gruppi di persone che guadagnano condividendo teorie che descrivono il riscaldamento globale come una bufala. Le fake news riguardano principalmente la negazione del ruolo umano nel cambiamento climatico e teorie cospirative varie: i recenti incendi boschivi sono stati causati da incendi dolosi piuttosto che da condizioni più calde e secche; il mondo si sta raffreddando; i giganti del petrolio e del gas stanno percorrendo la strada verso le emissioni zero. Secondo gli esperti, queste teorie hanno già avuto un impatto significativo sull'opinione pubblica e l’interesse politico di prevenire un futuro disastroso per il pianeta.  Risulta sempre più chiaro come la disinformazione sia legata a interessi di paesi, aziende e persone con diverse agende, ma unite nel voler screditare la minaccia del cambiamento climatico. E il fatto che gli Emirati Arabi, che ospitano la COP28, sono uno tra i più grandi esportatori di petrolio, ne è una dimostrazione.



Aggiungi un posto a tavola


La saga di OpenAI ha messo in evidenza quanto sia importante la comunicazione corporate. Una pessima comunicazione rivolta dall’ex consiglio di amministrazione ai propri stakeholder (dipendenti, investitori, media, etc.) ha quasi causato l’implosione dell’azienda per averla esposta a gravi rischi e danni reputazionali irreparabili. Da questo episodio, come racconta Axios, è anche emersa la necessità di avere la figura del comunicatore all’interno dei board. Gli amministratori sono consapevoli non solo del valore della reputazione e della comunicazione che la rafforza e protegge, ma anche del ruolo di quest’ultima nell’aumentare il peso della compagnia nei mercati globali. Nonostante questa consapevolezza, secondo un recente rapporto di Spencer Stuart solo 16 chief communications officer siedono nei consigli di amministrazione delle società Fortune 500.



AI’s Hall of Fame


L’intelligenza artificiale è oggi nell’occhio del ciclone mediatico, ma per portarla alla ribalta è stato necessario un lavoro più che decennale da parte di figure professionali differenti. Il New York Times dedica spazio a uno degli argomenti principe del dibattito mondiale attraverso uno story angle peculiare: infatti, al posto degli – inflazionati – interrogativi su come questa tecnologia modellerà il futuro trova spazio la storia che c’è alle sue spalle, raccontata attraverso i nomi dei ricercatori, imprenditori e manager del settore tech e venture capitalist che grazie al loro interesse e al loro lavoro hanno contribuito alla sua affermazione e ascesa. Tra loro ci sono figure note al grande pubblico, come Sam Altman, Bill Gates, Larry Page, Elon Musk e Mark Zuckerberg, a fianco di altre che forse ai non addetti dicono meno ma che hanno dato un contributo importante: tra loro figurano il ricercatore Dario Amodei, uscito da OpenAI per fondare Anthropic, impegnata nel creare sistemi di AI sicuri, il neuroscienziato Demis Hassabis, che insieme a altri ha creato Deepmind, uno dei più importanti laboratori dedicati a questa tecnologia, Geoffrey Hinton, docente universitario pioniere nel campo delle reti neurali, i venture capitalist (ed ex PayPal) Reid Hoffmann e Peter Thiel, il CEO di Microsoft Satya Nadella, e il ricercatore e filosofo Eliezer Yudkowsky, che al fascino per l’AI ha sempre accompagnato preoccupazione per le sue ricadute in termini etici. Con questa scelta editoriale in New York Times si posiziona in maniera originale su un tema caldo, senza però lasciare indietro aspetti (e anche parole chiave) a esso associati di frequente in articoli più mainstream.

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