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Editoriale 119

La comunicazione sui media
20 - 26 febbraio

28 febbraio 2023

Cosa dice Chomsky sulla NATO. Internet ha salvato Zelensky. AI contro la disinformazione in Nigeria. Il business dell’oblio. Essere giornalista a Teheran. Come fare fuori i giornalisti russi in America.

La Redazione


Cosa dice Chomsky sulla NATO


In un’intervista esclusiva rilasciata a Truthout, Noam Chomsky sostiene che il conflitto russo-ucraino si stia sempre di più trasformando in una guerra tra gli Stati Uniti e la NATO contro la Russia, e critica l’idea secondo cui servirebbe una NATO più forte. Ciò per diversi motivi. Tra i più importanti, perché la NATO nel corso degli anni ha utilizzato un ampio sistema di propaganda per creare una certa immagine di sé e del suo operato. Utilizzando una retorica che vede la Russia come il “cattivo” da combattere, tutte le altre preoccupazioni passano in secondo piano, anche il fatto che il suo intervento potrebbe portare a una guerra nucleare. E anche i tentativi di giungere ai negoziati di pace sembrano inutili, perché poco convenienti a un altro tipo di retorica, quella della guerra “tra la luce e le tenebre”, che legittimerebbe maggiormente un intervento diretto della NATO. Non è una novità. Anche in passato è stata utilizzata questa narrazione per spostare il consenso popolare a favore degli interventi militari degli Stati Uniti. Chomsky cita l’appello di Nixon al popolo americano con cui chiedeva l’appoggio per la distruzione della Cambogia: “If, when the chips are down, the world’s most powerful nation, the United States of America, acts like a pitiful, helpless giant, the forces of totalitarianism and anarchy will threaten free nations and free institutions throughout the world.” Che cosa rappresenta, ad oggi, la NATO? Per capirlo meglio, Chomsky fa un esempio significativo: la recente acquisizione da parte della Marina statunitense di una nave d’assalto, la USS Fallujah, chiamata in questo modo per commemorare gli attacchi a Fallujah del 2004, tra i crimini più atroci compiuti dagli Stati Uniti durante l’invasione in Iraq che vide il massacro di donne e bambini. È strano che questa triste pagina di storia sia stata dimenticata, e che addirittura oggi venga celebrata. Nonostante le testate giornalistiche avessero dato notizia dell’accaduto (dal Washington Post al New York Times, per citare due esempi) la propaganda statunitense ha ribaltato la realtà. Risulta quindi così oltraggioso paragonare l’attacco della Russia all’Ucraina a quello “misericordioso” degli Stati Uniti in Iraq, come sostengono alcuni studiosi occidentali? Per Noam Chomsky no, così come non lo è riflettere sul fatto che permettere l’intervento della NATO in Ucraina potrebbe significare dire addio per sempre ai negoziati di pace.



Internet ha salvato Zelensky


A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, Semafor stila un bilancio di quanto Internet abbia influito nel conflitto con la Russia insieme a Matthew Prince, CEO di Cloudflare, una società di sicurezza informatica che lo scorso anno ha iniziato a fornire i suoi servizi gratuitamente all'interno dell'Ucraina. Internet in Ucraina è stato più resistente di quanto ci si aspettasse. Anche se la fibra è stata distrutta, le informazioni dall'Occidente continuano ad entrare e quelle dall’Ucraina non smettono di uscire. Quella tra Russia e Ucraina è la prima vera guerra informatica e Internet ha dimostrato di essere molto resistente. Nonostante a marzo 2022 la Russia abbia indirizzato il traffico Internet al suo interno, le storie ucraine hanno continuato a uscire senza filtri e in maniera cruda, permettendo al mondo intero di vedere cosa stesse accadendo al suo interno. Se la Russia fosse stata in grado di disattivare completamente Internet, sicuramente Zelensky o l'Ucraina non sarebbero sopravvissuti. Invece il Presidente ucraino ha potuto partecipare a conferenze e pubblicare post su TikTok. Anche gli attacchi degli hacker russi non sono stati in grado di fermare il flusso di informazioni su Internet, probabilmente per due motivi: il primo è che gli attacchi informatici si sono concentrati sulle istituzioni governative, sui servizi finanziari e sui media; l’altro motivo è che, prima della guerra, le bande di hacker provenivano sia dall’Ucraina che dalla Russia. Prince, infine, si chiede se la Russia limiterà l’accesso a Internet al suo interno. Il Cremlino avrebbe potuto oscurare YouTube, dato che critici di Putin come Bellingcat e Navalnyj continuano a pubblicare video, ma non l’ha fatto. A differenza della Cina, che da sempre limita l’accesso a Internet e non ha mai ceduto. Russia, Iran e altri regimi autoritari non hanno ancora limitato l’accesso alla rete, ma stanno sicuramente valutando la possibilità di farlo.



AI contro la disinformazione in Nigeria


I fact-checker coinvolti nelle elezioni presidenziali nigeriane hanno fatto ricorso all'intelligenza artificiale per contrastare la disinformazione. Come riporta un articolo di Poynter, infatti, l’organizzazione di fact-checking Full Fact, con sede nel Regno Unito, ha collaborato con diverse agenzie africane che operano in Nigeria. Full Fact ha messo a disposizione i suoi sistemi di intelligenza artificiale per automatizzare i lunghi processi di fact-checking, facilitando così il processo di verifica di per sé complesso a causa della numerosità della popolazione nigeriana di oltre 200 milioni di persone. “Gli strumenti non intendono sostituire i fact-checker e l'importante lavoro che svolgono”, ha dichiarato Kate Wilkinson, senior product manager di Full Fact. “Piuttosto, aiutano a svolgere le attività di monitoraggio e revisione manuale che richiedono molto tempo”. David Ajikobi, direttore di Africa Check, ha aggiunto che alcuni politici tendono a ripetere dichiarazioni che sono state smentite più volte e si registrano casi in cui, con il supporto dei loro sostenitori, lanciano attacchi mediatici per screditare il lavoro dei fact-checker. Da segnalare il contributo di Google, pari a 2 milioni di dollari, a questo progetto. “Prima di tale contributo, Full Fact analizzava circa 100 affermazioni al giorno”, dice Wilkinson. “Con il sostegno di Google, i nostri strumenti di intelligenza artificiale ci permettono ora di identificarne e rivederne 100.000 al giorno”. Non sempre, quindi, l'intelligenza artificiale deve essere associata alla sua impareggiabile capacità di diffondere rapidamente disinformazione.



Il business dell’oblio


Il nome e lo slogan (“Cancelliamo il tuo passato”) non lasciano spazio ad interpretazioni. Si chiama Eliminalia e si tratta di un’organizzazione spagnola che si impegna a cancellare le informazioni scomode dai risultati delle ricerche su Google. Come spiega IrpiMedia, l’agenzia è stata fondata nel 2013 dal giovane imprenditore Diego Sanchez Jimenez, conosciuto anche come Didac Sanchez, e, nel gennaio di quest’anno, ha cambiato nome in iData Protection. Ha sede in più parti del mondo e dichiara di avere oltre 900 clienti, per i quali, dietro un lauto pagamento, cerca di eliminare contenuti online a loro non graditi contattando o le testate responsabili della pubblicazione o direttamente Google. Nel primo caso, Eliminalia invia un’email alla testata utilizzando indirizzi che alludono alla Commissione Europea, con tono intimidatorio e riferimenti a potenziali reati. Nel secondo caso, invece, l’agenzia si spaccia spesso per un impiegato di noti gruppi editoriali, copia il contenuto di cui vorrebbe l’eliminazione in siti e blog creati appositamente e li retrodata, in questo modo può fare appello al reato di violazione del copyright. Nel caso in cui falliscano le richieste di rimozione, Eliminalia crea più articoli falsi che, grazie alle tecniche di posizionamento, scalzano il contenuto relegandolo in seconda o terza pagina di Google, il “dimenticatoio” per eccellenza. Tra i clienti stranieri dell’agenzia ci sono corruttori, trafficanti di droga ma anche professionisti coinvolti in frodi finanziarie e uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali (in Italia si parla soprattutto di imprenditori, manager, avvocati e contabili). Le cifre pagate per la rimozione di un link vanno dai 200 ai 2mila euro, ma alcuni clienti hanno investito anche 50mila euro per ripulire il web dal loro nome. Tutte le informazioni che riguardano le operazioni di Eliminalia sono state svelate grazie a un database di 50mila contatti, scambi di email e altri documenti reso pubblico da un’inchiesta di Forbidden Stories a cui ha partecipato anche IrpiMedia. Il business della reputazione si fa sempre più importante e intricato e ha spesso ricadute legali. Tanto i privati quanto gli stati si affannano sempre più per mantenere un’immagine a loro consona di sé stessi, ma se da un lato è da proteggere il diritto all’oblio, il “diritto di essere dimenticati”, dall’altro non è pensabile il ricorso a mezzi fraudolenti per raggiungere tale scopo.



Essere giornalista a Teheran


Nonostante le coercizioni del regime, in Iran i professionisti dell’informazione continuano a fare il loro lavoro. A spiegare come, su Columbia Journalism Review, è Fariba Pajooh, giornalista originaria di questo Paese che ha sperimentato in prima persona le conseguenze del superamento dei limiti imposti dagli ayatollah: nel 2009, racconta, è stata messa in isolamento nella prigione di Evin per 124 giorni, per il solo fatto di avere scritto dell’Iran su media internazionali e occidentali. Più di dieci anni dopo a Niloofar Hamedi, prima giornalista a scrivere della morte della 22enne Mahsa Amini, e a Elaha Mohammadi, che ha documentato il funerale della ragazza, sono state mosse accuse simili; inoltre, i dati ufficiali parlano di 62 giornalisti arrestati quest’anno nel Paese, ma si stima che il loro numero sia molto più alto. In questo contesto difficile l’informazione non può prescindere dai social network, piattaforme utilizzate da chi protesta (vedi Editoriale 110) con l’aiuto di strumenti come VPN o proxy per diffonderla e per poter vedere le notizie dei media in lingua persiana con sede in altri Paesi, che a loro volta possono ricevere materiale dai citizen journalist. La Rete nasconde, però, anche insidie: è terreno fertile per troll e bots, e il governo iraniano traccia di continuo gli indirizzi IP dei giornalisti, che possono essere arrestati in qualsiasi momento. Intanto, però, le proteste continuano anche fuori da Internet, dalle finestre, con voci che urlano “morte al dittatore”. E il monito a non dimenticare quello che il popolo iraniano sta vivendo arriva anche nei cinema occidentali, grazie a Holy Spider di Ali Abbasi, che, pur essendo ambientato nel passato, dice molto dell’Iran di oggi e del suo giornalismo, ostacolato dalle autorità e rappresentato da molte professioniste, bersagli privilegiati di ogni tipo di molestie (Editoriale 101).



Come fare fuori i giornalisti russi in America


L’emittente Voice of America (VOA) ha messo in congedo due giornalisti del suo servizio in lingua russa dopo che quindici colleghi li hanno accusati di aver fatto propaganda a favore di Putin prima che entrassero a far parte dell'emittente finanziata dal governo statunitense. Come riporta The Washington Post, i cronisti accusati sono Garri “Harry” Knyagnitskiy e Daria Davydovache, prima di essere assunti da VOA, hanno lavorato diversi anni presso organi di informazione controllati dal governo russo o strettamente collegati a esso; secondo i colleghi di VOA, il loro precedente lavoro “contributed to the spread of Russian propaganda narratives and disinformation and laid the groundwork for the Kremlin to justify their full-scale invasion”. VOA, comunque, afferma di sottoporre i nuovi dipendenti a indagini per verificare eventuali legami con governi stranieri e di supervisionare il loro lavoro per garantire che sia conforme agli standard americani di neutralità e obiettività. Sebbene VOA sia finanziata dal governo degli Stati Uniti, i suoi giornalisti sono indipendenti dal controllo diretto del governo. “Non sono un propagandista. E il mio cuore appartiene all'Ucraina”, ha affermato dal canto suo Knyagnitskiy. In tutto questo i dirigenti di VOA, parlando delle assunzioni dei giornalisti in questione, hanno detto di non aver riscontrato alcun fattore squalificante nel loro lavoro precedente o problemi da quando hanno iniziato a lavorare per VOA.

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