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Editoriale 147

La comunicazione sui media
09 - 15 ottobre

17 ottobre 2023

Conflitto in Medio Oriente: tra un’altra prevedibile guerra stellare, impatto sui media e salute mentale dei giornalisti. I rischi del corporate activism. Manuali di climate change. La legge protegge i Musk. La Bestia sta tornando.

La Redazione


Un’altra prevedibile guerra stellare


Poco più di dieci anni fa, l’utilizzo di Facebook e Twitter durante la Primavera Araba evidenziò l’importante ruolo che queste realtà potevano svolgere nella condivisione di informazioni affidabili. Oggi, con il nuovo conflitto in Medio Oriente, sembra che i social media stiano vivendo una crisi di autenticità per aver abbandonato quella nobile visione. “We’ve moved from social media to algorithmic media,” ha detto Daniel Kreiss explains, professore di comunicazione politica presso l’University of North Carolina. Il New York Times scrive che sia Israele sia Hamas hanno fatto ricorso, come era prevedibile, alle piattaforme di social media per diffondere propaganda e disinformazione, con l'obiettivo di influenzare l'opinione pubblica e il corso del conflitto. Hamas ha diffuso video che mostravano civili israeliani uccisi da attacchi missilistici, quando in realtà le vittime erano soldati israeliani. Israele, da parte sua, ha diffuso video che mostravano i lanci di missili di Hamas da aree civili, quando in realtà i missili venivano lanciati da aree militari. Queste campagne di disinformazione hanno reso complicato per le persone capire cosa stesse succedendo, oltre a contribuire a creare un clima di ostilità e divisione tra le due parti. Le piattaforme social hanno compiuto diversi sforzi, il più delle volte insufficienti, per contrastare la diffusione di fake news. Situazione che diventa più preoccupante alla luce del sondaggio condotto lo scorso anno dal Pew Research Center, dal quale è emerso che le persone sotto i 30 anni si fidano dei social media quasi quanto dei mezzi di informazione tradizionali. Non è un caso che su TikTok si sia registrato un flusso costante di videorealizzati da influencer e creator che vivono in prima persona il conflitto. Video che raggiungono milioni di visualizzazioni perché gli utenti preferiscono questo tipo di notizie a quelle fornite dai media tradizionali, considerati da quest’ultimi soggetti alla politica e al capitalismo: TikTok sarebbe in grado di offrire più punti di vista, motivo per cui molti palestinesi l’hanno scelto per raccontare le proprie storie, considerate più autentiche rispetto alla narrazione presente nei giornali e nelle televisioni.



…impatto sui media


Dopo l'attacco di Hamas a Israele, la rete televisiva MSNBC ha silenziosamente sospeso tre dei suoi conduttori musulmani: Mehdi Hasan, Ayman Mohieddine e Ali Velshi. A riportarlo è Semafor, che sottolinea quanto alcuni membri dello staff di MSNBC siano preoccupati per questa decisione, ritenendo che tutti e tre i conduttori abbiano una conoscenza approfondita del conflitto che si sta svolgendo in Medio Oriente. La rete televisiva, al contrario, sostiene che questi cambiamenti siano stati del tutto casuali e che i tre continuano ad andare in onda per raccontare e fornire analisi. Tutto ciò avviene dopo che la MSNBC ha espresso solidarietà allo Stato ebraico, e dopo che sono nate obiezioni interne e sui social media nei confronti di Hasan, Mohyeldin e Velshi. Pare dunque che le divisioni in Medio Oriente si siano riflesse anche nella politica interna dell'azienda. Ma non è la prima volta che accade. Nel 2014 Mohyeldin è stato bruscamente allontanato dal lavoro di copertura della regione da parte della TV americana e sostituito da Richard Engel per diversi giorni. E nel 2021, quando si è riacceso il conflitto a Gaza, i dirigenti della MSNBC hanno espresso il loro disagio nei confronti dei conduttori Hasan e Mohyeldin per il loro servizio di copertura della guerra. I media conservatori hanno esercitato pressioni su MSNBC affinché si orientasse maggiormente verso Israele nei suoi servizi. Secondo National Review infatti l’analisi di Mohyeldin “giustificava la violenza di Hamas come l'inevitabile risultato dell'aggressione israeliana”. Tuttavia, dal punto dell’autore dell’articolo, le critiche mosse ai tre conduttori di MSNBC sembrano decisamente sproporzionate rispetto a ciò che hanno detto in onda.  Il tono dei notiziari americani via cavo negli ultimi giorni è stato simile per tutte le reti così come il tono dei dibattiti. I giornalisti hanno dato notizie sulla brutalità degli attacchi, mentre decine di commentatori e opinionisti hanno condannato la violenza di Hamas e hanno espresso vari gradi di sostegno alla risposta militare israeliana in corso. Un episodio simile ma di natura diversa si è verificato al Wall Street Journal: l’articolo secondo cui l’Iran “ha contribuito a pianificare” l’attacco di Hamas, ha generato malumori all’interno del giornale. Tre fonti hanno riferito a Semafor che prima che la storia venisse pubblicata, i capi del team di sicurezza nazionale del giornale avevano sollevato diverse preoccupazioni sull’articolo, scritto da tre corrispondenti in Medio Oriente, dato che un comprovato e diretto ruolo iraniano nell’attacco di Hamas avrebbe potuto portare ad una escalation del conflitto. Motivo per cui i colleghi di Washington avrebbero chiesto più tempo prima della pubblicazione per verificare la veridicità del contenuto.



…e salute mentale dei giornalisti


L’esposizione continua a immagini di guerra, violenzae odio provoca danni mentali agli inviati di guerra, ma non solo. I capi delle redazioni sanno di doversi “prendere cura” dei giornalisti che si trovano nei territori colpiti dai conflitti armati, ma è stato documentato che anche produttori ed editori soffrono di alti livelli di stress traumatico. È solo che sono meno propensi a parlarne, perché non sono sicuri che le loro preoccupazioni vengano prese sul serio dato che non si trovano in zone di guerra. Come riportato da Poynter,  il trauma è reale. La US Substance Abuse and Mental Health Services Administration ha affermato che la visione continua di immagini di guerra e violenza può causare “effetti negativi duraturi sul funzionamento dell’individuo e sul benessere mentale, fisico, sociale, emotivo o spirituale”. La dott.ssa Tara Swart, neuroscienziata del MIT, ha studiato lo stress tra i giornalisti e ha scoperto che questi sono senza dubbio soggetti a una serie di pressioni stressanti, ma il significato e lo scopo che attribuiscono al loro lavoro li aiuta a rimanere mentalmente resilienti. I ricercatori hanno anche scoperto che quando i giornalisti credono che il loro lavoro sia importante, hanno maggiori probabilità di riprendersi più velocemente dallo stress traumatico. Un altro effetto della continua esposizione a questo genere di immagini è il rischio che nei giornalisti si verifichi un distacco emotivo, causa di scelte giornalistiche negative come interviste insensibili, pubblicazione senza scrupoli di video e foto o atteggiamenti distaccati da loro identificati come normali. Senza i giornalisti, saremmo lasciati alla propaganda dei governi e ai post sui social media come fonti di informazione. Ecco perché l’intera categoria deve essere tutelata, ascoltata e compresa dai capi delle redazioni – soprattutto in periodi in cui è esposta continuamente alla visione di immagini di guerra, disperazione e morte.



I rischi del corporate activism


Secondo la recente indagine del Public Affairs Council, condivisa con Axios, il corporate activism registra un calo rispetto agli anni precedenti, specialmente sui temi più dibattuti. In vista delle ormai prossime elezioni politiche americane del 2024, le aziende sembrano essere più prudenti nell’esporsi su questioni sociali di attualità, alla luce delle possibili ripercussioni sia da un punto di vista politico-sociale sia di business (vedi Editoriale 138). Se infatti da un lato la presa di posizione su tematiche legate alla sostenibilità vede il favore dei sostenitori sia repubblicani sia democratici, dall’altro lato quando si tratta di questioni maggiormente complesse e sensibili, come ad esempio il diritto all’aborto, allora emerge il sostegno solo da parte dei democratici, mentre i repubblicani preferiscono che in questo caso le aziende non si “intromettano”. In una società come quella americana dove grandi aziende private hanno fatto dell’attivismo la loro fortuna e notorietà (vedi Nike), l’attuale contesto politico-sociale spinge le aziende a trovare modi di promuovere il proprio attivismo senza cadere nella trappola della politica. Potrà reggere questa strategia oppure si evolverà a seconda dei risultati delle elezioni politiche?



Manuali di climate change


Nelle scuole medie del Texas gli studenti potrebbero leggere nei propri manuali di scienze che l’origine del cambiamento climatico è solo parzialmente antropica, o che l’uso di combustibili fossili non ha inciso su questo fenomeno più della deforestazione o dell’urbanizzazione. Su Scientific American l’analisi delle nuove bozze dei tre set di libri di testo più venduti nello Stato americano riporta più di un caso in cui il cambiamento climatico viene presentato in maniera fuorviante. Non c’è una vera e propria negazione del fenomeno, ma una narrazione subdola: si legge, per esempio, che grazie ai combustibili fossili è possibile produrre elettricità, vero, ma non completo, perché si può arrivare allo stesso risultando utilizzando fonti di energia rinnovabile; o, ancora, il focus si sposta sul rilascio e non sull’emissione di gas serra e sul ruolo di deforestazione e urbanizzazione. Oppure, si riportano le cause naturali che in passato hanno portato, in archi di tempo ben più lunghi di qualche secolo, a cambiamenti climatici. Espedienti retorici non del tutto nuovi per chi abbia ascoltato qualcuno che nega o ridimensiona questo fenomeno, riproposti però in un ambiente diverso rispetto alle colonne di una testata, uno studio televisivo o la bacheca di un social media. Non per questo, però, si tratta di un’arena meno importante: il mese prossimo in Texas potrebbe arrivare l’imprimatur a dei testi che rimarrebbero in commercio anche nella prossima decade, diffondendo così una certa narrazione del climate change in più di una generazione di ragazzi. La scuola, insomma, diventa così uno scontro di terreno strategico tra chi vuole sensibilizzare al problema e chi, al contrario, lo ridimensiona.



La legge protegge i Musk


Da quando Elon Musk ha acquisito X (precedentemente Twitter) è sempre più esposto perché, come afferma Massimo Sideri sul Corriere della Sera, “di X Musk è l'editore, il direttore e l'editorialista principale e unico”. Sono poche le persone che sono state capaci di costruire questa centralità mediatica, tra questi: Silvio Berlusconi, Donald Trump, Barack Obama e Steve Jobs. Tutti loro sono diventati il messaggio - il “medium” - ma diventarlo non è automatico: “diventare il messaggio è una specie di perturbazione gravitazionale della comunicazione. Da questo punto di vista Musk è il campione mondiale del marketing”. Musk è stato recentemente accusato di diffondere, tramite X, disinformazione sul conflitto in corso in Medio Oriente. Motivo per cui il commissario al Mercato unico, Thierry Breton, ha scritto a Musk chiedendo con una urgenza irrituale (24 ore) di rispondere subito alla Ue per far chiarezza su questo punto. Tuttavia, secondo il Telecom Act e il Decency Act (con la sezione 230), le normative del 1996 che hanno dato forma a internet, “nessun gestore di servizi online può essere considerato responsabile per i contenuti che passano su di esso prodotti da altri”. E Musk, in questo caso, più che editore di X viene considerato un mero gestore di un servizio. La “legge”, quindi, proteggerà al momento Musk a meno che non si riveda in tempo record la sezione 230, cosa mai accaduta prima d’ora.



La Bestia sta tornando


Ricomincia la campagna elettorale per Matteo Salvini e, con essa, la sua strategia social condita di toni aggressivi. In vista delle prossime elezioni europee di giugno 2024, il leader della Lega ha iniziato ad aumentare la pubblicazione dei post, specialmente su TikTok e Instagram, per avvicinarsi all’elettorato più giovane. Come rileva il Corriere della Sera, la propaganda salviniana è più forte di quasi 8 volte rispetto a quella dell’attuale premier Giorgia Meloni, con una media di 7,6 contenuti al giorno contro 1,1 di Meloni solo su Facebook. Negli ultimi 30 giorni la Bestia, la macchina social salviniana soprannominata così quando alla gestione c’era Luca Morisi, si è risvegliata sotto la guida di Leonardo Foa, figlio dell’ex presidente Rai Marcello e Daniele Bertana, capo della segreteria del Capitano al ministero. Tra i temi maggiormente trattati torna l’emergenza migranti, il caso della giudice Apostolico e la promozione dei raduni della Lega. Obiettivo della Bestia ora è raccogliere i voti più a destra e superare il 10% per consolidare la leadership del partito, superando FDI. Ma ci riuscirà? Dall’analisi pare che nonostante il numero di contenuti sia superiore a quello della Premier, l’appeal dei profili di Salvini sia diminuita rispetto ai tempi d’oro. A fronte di 266 post, il tasso di engagement è fermo allo 0,83%, lo stesso di Meloni che ha pubblicato 8 volte in meno.

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