Editoriale 115
La comunicazione sui media
23 - 29 gennaio
31 gennaio 2023
Crisi climatica e giornalismo, a che punto siamo? Il timore di parlare di recessione. Come (non) comunicare una crisi economica. The Trump “Social” Tower. USA 2024: media, keep calm. Africa: Twitter chiude e la disinformazione dilaga. E alla fine arriva Jeff. Il peso delle immagini. Google a caccia di disinformazione.
La Redazione
Crisi climatica e giornalismo, a che punto siamo?
Il susseguirsi di disastri ambientali legati al cambiamento climatico ha evidenziato l'urgente necessità di un efficace giornalismo sul clima. Ne parla il Columbia Journalism Review ricordando che, storicamente, la risposta dei media è stata relativamente silenziosa, trattando il tema solo come una preoccupazione di nicchia (vedi Editoriale 113). Fortunatamente, tutto questo sta cambiando: negli ultimi anni, le redazioni giornalistiche di tutto il mondo hanno assunto decine di reporter e lanciato una serie di programmi sull’argomento. Tuttavia, questo fenomeno è ancora poco coperto. In uno studio condotto a dicembre dal Reuters Institute dell'Università di Oxford, circa la metà dei “news consumers” in otto Paesi diversi ha dichiarato di non aver visto o sentito alcuna notizia sul cambiamento climatico nella settimana presa in considerazione dallo studio. I leader mondiali sembrano aver recepito il messaggio anche se, come ha dimostrato il deludente risultato del vertice sul clima Cop27 tenutosi a novembre in Egitto, i Paesi più potenti del mondo continuano a parlare più che ad agire. “The world still needs a giant leap on climate ambition”, ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres al termine del vertice. Alcuni organi di informazione stanno fornendo esempi incoraggianti, come Bloomberg e The Guardian, il cui direttore ha dato istruzioni ai giornalisti di preferire “crisi climatica” e “emergenza climatica” al meno urgente “cambiamento climatico”. I giornalisti non devono dare al pubblico l'impressione che tutto sia perduto. Mettendo in evidenza le modalità di riduzipne delle emissioni, devono dare ai lettori la possibilità di trovare il proprio ruolo in una storia che spesso può sembrare astratta.
Il timore di parlare di recessione
Ultimamente, i giornalisti economici faticano a trovare le parole giuste per descrivere l’economia e i fenomeni ad essa legati. Come riportato dal Columbia Journalism Review, “unpredictable”, “chaotic”, “weird” sono solo alcuni dei termini utilizzati di recente, a conferma delle difficoltàper i giornalisti nel dare un senso al presente. “In questo momento, coprire le notizie economiche americane è più impegnativo di quanto non sia mai stato”, ha dichiarato Shawn Donnan, giornalista di Bloomberg News. Sempre Donnan ha aggiunto che, per esempio, il mercato immobiliare sembra essere in recessione, ma altri settori economici stanno andando molto bene, e ciò rende ancora più difficile creare una narrazione economica chiara. Emily Stewart, giornalista finanziaria di Vox, evita di parlare di recessione perché non spetta in n prima battuta ai media farlo e non è chiaro cosa accadrà in futuro. Alcuni giornalisti, nel tentativo di fare chiarezza, guardano dati relativi a “luoghi non convenzionali” quali le prenotazioni ai ristoranti e dei voli ma tali risultati possono portare a conclusioni contraddittorie. Forse la parte più difficile dei reportage sull'economia oggi – sostiene Arthur Delaney, reporter di politica ed economia per HuffPost – è che tendono a diventare noiosi: “Siamo nella stessa situazione economica, per quanto ne sappiamo, da circa un anno. Le storie possono essere molto ripetitive ed è difficile trovare nuovi modi per descrivere i fatti”.
Come (non) comunicare una crisi economica
In questo periodo di grandi turbolenze economiche, la comunicazione della BCE si sta rivelando pericolosamente inefficace, arrivando a creare danni e reazioni incontrollate nei confronti degli interventi economici annunciati. Come riportato in un articolo di Milano Finanza, lo stesso governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, sottolinea che la comunicazione non può essere presa sotto gamba ma ormai, per il raggiungimento degli obiettivi finali e la corretta realizzazione dei provvedimenti in programma, acquisisce tanta importanza quanto il contenuto stesso dei progetti, piani di ripresa o programmi istituzionali. I messaggi condivisi dall’Istituto di Francoforte risultano essere al momento, come evidenziato da Visco, troppo duri e distaccati spaventando così la popolazione invece che comunicare empatia e accompagnare i provvedimenti con una precisa spiegazione delle decisioni prese. In questo contesto è evidente che, essendo diventata la manovra monetaria anzitutto comunicazione, è fondamentale non lasciare che questa sia lasciata all'improvvisazione con il rischio che possa causare, paura, disorientamento o interpretazioni scorrette; il successo stesso dei programmi economici è ormai strettamente connesso al modo in cui questi vengono comunicati e dunque percepiti dalle popolazioni. La riservatezza e l’ermetismo che ha da sempre contraddistinto il mondo delle banche centrali deve adesso fare i conti con l’importanza della comunicazione e riconoscerne il peso, affrontandone ogni aspetto per dare reale concretezza alle riforme e contrastare così, anche grazie ad una efficace condivisione di messaggi e dunque ad una corretta percezione della realtà da parte della popolazione, la crisi in atto.
The Trump “Social” Tower
Il mondo, e in particolare l’America dei social network, è sempre più vicino a scontrarsi con il ritorno di Donald Trump dopo l’esilio dai social media tradizionali a cui è stato costretto a seguito dell’assalto al Campidoglio. C’è da chiedersi, e The New York Times lo ha fatto attraverso un approfondimento, quanto il tycoon che conoscevamo prima sia cambiato nel suo modo di comunicare e quanto la sua lontananza dalle piattaforme digitali di maggior richiamo lo abbiano in un qualche modo responsabilizzato. Analizzando il suo comportamento su Truth Social, il social network da lui stesso creato, la tendenza è quella di una continua esasperazione di teorie del complotto, facenti riferimento al movimento QAnon, che hanno ampliato la sua base di seguaci. Ora che si appresta a tornare nelle piazze digitali più grandi il rischio è quanto il suo comportamento radicale diventato ancor più estremo e potente possa influenzare gli utenti. Non è però un comportamento nuovo per Donald Trump che da sempre ha avuto un modo di comunicare oltre le linee e a tratti estremo. Se precedentemente, come riportato da Politico (vedi Editoriale 97), con la creazione di Truth Social, Trump sembrava andare incontro ad un declino mediatico senza precedenti, oggi il timore di una sua nuova ascesa digitale si fa più forte, grazie alla sua capacità, in questi due anni di quasi totale assenza sui social, di inserirsi nel dibattito pubblico attraverso nuovi metodi(vedi Editoriale 66). La sua assenza dai social per certi versi lo ha paradossalmente aiutato a ristabilirsi nell’immagine collettiva riconquistando alcuni elettori persi nelle precedenti elezioni e recuperando anche punti sull’avversario Biden.
USA 2024: media, keep calm
L’ansia per le elezioni presidenziali americane del 2024 si sta già facendo sentire e molti giornalisti provano a predirne l’esito, il vincitore o eventuali ballottaggi. Ma Jeff Greenfield non è dello stesso parere. In un suo articolo pubblicato su Politico, il giornalista sottolinea come in passato molti tentativi dei media di prevedere l’esito delle votazioni si siano rivelati fallimentari, in alcuni casi non senza clamore (vedi Editoriale 106). Vengono citati numerosi esempi. Per tutta la seconda metà del 2003, il governatore del Vermont Howard Dean è stata la figura di riferimento per i democratici nelle primarie presidenziali. Con la sua denuncia della guerra in Iraq ha ottenuto il sostegno dei progressisti e l'uso di Internet nella sua campagna gli ha fatto guadagnare milioni di dollari rispetto ai suoi rivali. Alla fine dell'anno stava dominando i sondaggi, ma è stato sconfitto da John Kerry che era già stato dato per spacciato dai giornalisti. Quattro anni dopo, è toccata la stessa sorte all’ ex sindaco di New York City Rudy Giuliani del partito repubblicano. Era molto avanti nei sondaggi nazionali tuttavia, quando sono iniziate le votazioni, Giuliani ha deciso di abbandonare del tutto la sua campagna. Forse perché i repubblicani in Iowa e New Hampshire non vedevano di buon occhio il candidato, favorevole ai diritti all'aborto, ai diritti dei gay e alla legislazione sul controllo delle armi. Per citare un caso più recente, dalla metà del 2019 fino alle prime primarie all'inizio del 2020, Joe Biden è sempre stato visto dai media come il candidato perdente: in ritardo nei sondaggi, a corto di soldi e con pochi sostenitori al seguito. Era Bernie Sanders, con le sue enormi capacità di raccolta fondi e la sua forza emergente tra i progressisti, il candidato da battere. Il 29 febbraio nella Carolina del Sud, Biden ha vinto con quasi il 50% dei voti, due volte e mezzo quello di Sanders. Entro 96 ore, la maggior parte dei rivali di Biden si era ritirata dalla gara e aveva deciso di appoggiarlo; da lì in poi la corsa alle primarie era finita. Secondo Greenfield, il punto della questione non è “togliere la parola” ai giornalisti durante la campagna elettorale, ma inserire tutte le previsioni in un contesto più ampio e avere un’abbondante dose di umiltà.
Africa: Twitter chiude e la disinformazione dilaga
La recente chiusura dell'unico ufficio di Twitter in Africa sta facilitando la diffusione di fake news sui candidati politici in vista delle elezioni in Nigeria del mese prossimo (sul rapporto della Nigeria con Twitter vedi Editoriale 66). Come riporta Semafor, il team africano la cui creazione era stata annunciata nell'aprile 2021 e chiuso dopo l'acquisto di Twitter da parte di Elon Musk (vedi Editoriale 104 e Editoriale 109), era responsabile per l'Africa subsahariana e aveva una squadra che comprendeva le lingue più parlate del Paese per poter identificare i discorsi di odio. La tempistica dei tagli a Twitter è particolarmente sfortunata in vista delle elezioni presidenziali più importanti dell'Africa, che si terranno in Nigeria il 25 febbraio. Sono già emerse notizie sull'uso dei social media da parte di attori politici per diffondere falsità. Su Twitter per esempio si sono diffuse voci secondo cui Peter Obi, uno dei candidati, avrebbe giurato fedeltà a un gruppo secessionista, e la BBC ha riferito che i partiti politici nigeriani pagano segretamente gli influencer per diffondere false informazioni sui loro avversari. Anche le recenti e violente rivolte politiche negli Stati Uniti e in Brasile hanno coinvolto i social media (vedi Editoriale 113). Ma, a differenza degli Stati Uniti e del Brasile, le forze di sicurezza nigeriane farebbero probabilmente fatica a contenere quelli che potrebbero essere molteplici focolai alimentati dalle fake news diffuse sui social. Per ora Twitter non ha risposto alle richieste di commento sulla chiusura dell’ufficio africano mentre Meta ha dichiarato di aver investito in una tecnologia di rilevamento automatico per identificare i discorsi d'odio in più di 70 lingue e che lavorerà a un nuovo approccio di moderazione dei contenuti.
E alla fine arriva Jeff
Cosa è successo al Washington Post? A porsi questa domanda è Clare Malone, che sul New Yorker approfondisce l’annus horribilis della testata arrivata alla fama internazionale grazie ai Pentagon Papers e all’indagine sullo scandalo del Watergate raccogliendo le voci di chi ci lavora, anche ad alto livello. Il 2022 ha visto, infatti, l’annuncio delle prime perdite registrate in cinque anni e di un piano di licenziamenti durante una town hall (vedi Editoriale 111) e risultati economici peggiori rispetto a competitor come New York Times e Wall Street Journal (vedi Editoriale 96). A prendere la parola sulle colonne del New Yorker è, tra gli altri, l’editore Fred Ryan, che definisce i tagli al personale propedeutici a una trasformazione del giornale in un’entità più competitiva e annuncia assunzioni in aree come tecnologia, clima e salute ed espansioni tematiche e geografiche entro l’anno. Non tutte le altre voci ascoltate sono però totalmente concordi: se la maggior parte degli impiegati è infatti concorde sulla necessità di una migliore pianificazione strategica per il Post, da alcune testimonianze emergono le difficoltà di Ryan nelle relazioni quotidiane con i giornalisti e anche dei sospetti di attrito con la direttrice Sally Buzbee. La domanda che Malone si pone è che cosa il Post potrà offrire di esclusivo ai lettori nei prossimi cinque o dieci anni: a giudicare dalle voci di chi ci ha lavorato insieme, il lato creativo del business dei media non è tra i punti di forza di Ryan, e, tra molte incertezze, l’unica cosa che appare chiara è il fatto che l’editore ha l’opportunità di tirare le redini. In che direzione lo diranno solo le sue scelte e il tempo.
Il peso delle immagini
New Lines Magazine ha portato all’attenzione il caso della notizia riguardante l’Università di Hamline spiegando perché la pubblicazione di alcune immagini sarebbe stata necessaria da parte dei media americani. Tutto è successo il 6 ottobre dell’anno scorso quando Erika López Prater, professoressa di storia dell'arte, ha mostrato ai suoi studenti due famose immagini del profeta Maometto. Una studentessa musulmana, a seguito di questo fatto, si è detta turbata e ha presentato denuncia ufficiale all’università. Il 18 novembre, il giornale studentesco di Hamline, The Oracle, ha pubblicato un articolo che presentava l’atto compiuto dalla professoressa come “innegabilmente sconsiderato, irrispettoso e islamofobo”. I media statunitensi, tra cui il New York Times e il Washington Post, hanno dato seguito alla pubblicazione commettendo, secondo New Lines, a loro volta alcuni errori riportando le polemiche senza contesto e dettagli, escludendo anche le immagini al centro della bufera. New Lines, al contrario, affidando la scrittura dell’articolo a una professoressa d’arte islamica e presentando le immagini come caso di islamofilia, ovvero celebrazione del Profeta, ha contribuito a diffondere un corretto approfondimento della notizia, senza omissioni. Ciò ci ricorda l’importanza del coinvolgimento di esperti, soprattutto in casi delicati come quelli culturali, ma anche il potere che hanno le testate minori e locali nella possibilità di privilegiare l’approfondimento alla quantità.
Google a caccia di disinformazione
Come riporta Formiche, Google ha scoperto una rete di propaganda filo-cinese - Dragonbridge, anche conosciuta come Spamouflage Dragon – che ha l’obiettivo di influenzare il dibattito su temi quali, tra gli altri, la guerra in Ucraina. Lo ha annunciato il Threat Analysis Group, una divisione interna a Google che si occupa di monitorare e reagire alle azioni di attori maligni impegnati in atti di information operations. La maggior parte delle attività di Dragonbridge è costituita da contenuti di bassa qualità, privi di messaggi politici, anche se una piccola parte di account Dragonbridge pubblica anche notizie di attualità adottando la narrativa filo-governativa cinese che promuove messaggi di critiche alle proteste pro-democratiche a Hong Kong, nonché un deciso sostegno all’unificazione con Taiwan.Per provare a bloccare l’attività di questa rete, Google ha chiuso più di 100mila account Dragonbridge. Nonostante le dimensioni e la produzione di contenuti, comunque, Dragonbridge non ha ottenuto praticamente alcun coinvolgimento organico da parte di spettatori reali; nei rari casi in cui i contenuti hanno intercettato qualche interesse, si è trattato quasi sempre di contenuti non autentici, provenienti da altri account Dragonbridge. Non per questo, però, bisogna abbassare la guardia: Google lo sa, il contrasto alla disinformazione cinese potrebbe essere solo all’inizio.