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Editoriale 139

La comunicazione sui media
10 - 16 luglio

18 luglio 2023

Quale futuro per Threads. BBC, una crisi senza fine. Wikipedia versione Putin. Cosa ci insegna il modello Taiwan sulla disinformazione. L’America come la Corea del Nord. Torna la retorica di Mao. Essere influencer: minaccia o opportunità?

La Redazione


Quale futuro per Threads


Nella storia della Silicon Valley, le big tech diventano sempre più grandi perché sfruttano la loro potenza come vantaggio assoluto. Ma come mostra il caso Google+, la grandezza da sola non è una garanzia per vincere il mutevole e bizzarro mercato dei social media. Ed è quello che potrebbe accadere, secondo quanto scrive Mike Isaac sul New York Times, a Threads. Zuckerberg ha fatto leva sulla forza di Meta per spingere la sua nuova creatura che, dopo il forse scontato successo iniziale, prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. “Threads è tutt'altro che perfetto. È ancora basico e, proprio come Instagram, pieno di contenuti pop” sostiene David French. Ma è il fattore culturale ciò che lo rende migliore di Twitter: Elon Musk ha fatto a Twitter quello che Donald Trump ha fatto all'America. La teoria della cultura e del potere della nuova destra è fondamentalmente errata e si basa su un modello di dominio e imposizione che non funziona. Secondo l’autore dell’articolo, Musk è l'ennesimo triste rappresentante di un momento triste per la destra americana.



BBC, una crisi senza fine


Lo scandalo che vede coinvolto lo storico presentatore Huw Edwards è solo l’ultimo episodio di un periodo di crisi ben più lungo per l’emittente pubblica britannica. A sostenerlo è il Financial Times, che evidenzia come quest’ultimo caso abbia messo in evidenza la vulnerabilità di una simile istituzione nell’era della politica populista. E il “ventre molle” di questo medium starebbe proprio nella sua aspirazione all’imparzialità, criticata a destra come a sinistra, unita a una vocazione alla trasparenza che si rivela una vera e propria arma a doppio taglio (tutto questo dopo episodi non proprio limpidi, come l’avere messo a tacere un’inchiesta postuma su Jimmy Savile). Oltre agli scandali che coinvolgono i presentatori, non sono rare le accuse di difendere lo status quo politico, unite alle lamentele sul canone annuo obbligatorio (non di rado minacciato di abolizione), tutte polemiche dal sapore populista, che si aggiungono, a propria volta, alla concorrenza sul mercato combattuta con revisioni sulle spese e, quindi, sui palinsesti (vedi Editoriale 110). Senza dimenticare, tornando ai fatti più recenti, il ruolo di antagonista di altri media, come The Sun, che ha reso pubbliche le accuse ricondotte a Edwards e tratto vantaggio e visibilità dalla vicenda. Da non sottovalutare, infine, posizioni come quella dell’ex premier Truss, che metteva a paragone la BBC con la ben più schierata GB News (Editoriale 97). Aldilà delle vicende giudiziarie presenti e passate, che sia arrivato, per la televisione pubblica britannica, il momento di pensare a un rebranding, scegliendo di prendere apertamente una posizione in un dibattito sempre più polarizzato?



Wikipedia versione Putin


Il Cremlino ha lanciato la propria versione di Wikipedia, Ruwiki. Il suo fondatore, Vladimir Medeyko, è un ex redattore di lunga data della famosa enciclopedia open-source in lingua russa. Nonostante Medeyko abbia dichiarato di essere indipendente dal Cremlino e che il sito rimarrà neutrale impegnandosi a essere una fonte attendibile nel rispetto delle leggi russe, la nuova creatura sembra essere estremamente amichevole nei confronti di Putin e del suo governo. Come riportato da Insider, il lancio di Ruwiki a luglio segue un lungo stallo tra Wikipedia e la Russia: un anno fa, l’enciclopedia ha rifiutato le richieste di un tribunale russo di rimuovere articoli sull'invasione dell'Ucraina, ricevendo periodicamente sanzioni. Secondo il Telegraph, su Ruwiki sono presenti 1,9 milioni di articoli tratti da Wikipedia, ma con alcune notevoli modifiche. Insider ha confrontato i due siti e la sezione “critica” della pagina di Ruwiki su Putin – che conta circa 2.500 parole su Wikipedia russa – è stata ridotta a pochi paragrafi. Non c'è nulla sull'invasione dell'Ucraina e sulla pagina di quest’ultima non si fa menzione della guerra così come ogni citazione della ribellione del gruppo Wagner del mese scorso sembra essere stata eliminata. Secondo Bloomberg, il lancio di Ruwiki rappresenta il primo passo verso il divieto assoluto di Wikipedia, uno dei siti web più popolari del paese. Ruwikiè un ulteriore tassello alla repressione della libertà di parola e dei media indipendenti in Russia, dove le critiche ai suoi militari sono considerate fuori legge, le condanne dei dissidenti sono sempre più numerose e le testate indipendenti sono costrette a definirsi “agenti stranieri”.



Cosa ci insegna il modello Taiwan sulla disinformazione


Durante il World News Media Congress che si è tenuto a Taipei è emerso che Taiwan ha superato ogni altro paese al mondo per la quantità di fake news che altri governi diffondono all'interno dei suoi confini. Columbia Journalism Review spiega che il principale responsabile della disinformazione è il governo cinese, all’interno di una più ampia strategia di intimidazione militare, come già avvenuto a Hong Kong (vedi Editoriale 129). Per decenni, la propaganda di Pechino ha cercato di costruire una narrazione positiva, sostenendo che l'unificazione di Taiwan alla Cina avrebbe ripristinato i legami culturali e portato considerevoli benefici economici. Ma poiché il sostegno al modello “un Paese, due sistemi” si è affievolito a Taiwan in seguito all'intensificarsi della repressione a Hong Kong, la propaganda cinese si è spostata sulla diffusione di notizie false. I giornalisti affermano che è impossibile sapere dove finisca la manipolazione cinese e dove inizi la politica democratica taiwanese. In tale contesto, un esempio unico è la Central News Agency, un'agenzia di stampa finanziata dallo Stato che, in un ambiente mediatico polarizzato, si distingue per la sua copertura basata sui fatti. Inoltre, nel suo discorso al World News Media Congress, la Presidente Tsai Ing-wen ha elogiato gli approcci semplici e di buon senso per combattere la disinformazione: il miglioramento della comunicazione di governo, l'educazione all'alfabetizzazione mediatica, la ricerca e il sostegno alla società civile e alla comunità tecnologica. È improbabile che questi sforzi possano migliorare la situazione. Ma è l'approccio giusto, come sostiene Cheryl Lai, presidente di Taiwan Radio International, che cerca di contrastare la propaganda cinese raccontando la storia di Taiwan all'estero in venti lingue diverse. Dunque la migliore risposta alle fake news di Pechino è semplicemente quella di rafforzare la democrazia, una lezione che potrebbe tornare utile agli Stati Uniti (vedi Editoriale 138). Anche se le preoccupazioni restano profonde, soprattutto in vista delle elezioni del prossimo anno, l’esempio di Taiwan dimostra come sia possibile sopravvivere alla disinformazione pur non avendo a disposizione soluzioni a breve termine.



L’America come la Corea del Nord


Yeonmi Park, 29 anni, è una profuga della Corea del Nord che è riuscita rapidamente a conquistare i media statunitensi, in particolare quelli conservatori. Al momento del suo arrivo in America, dopo la fuga con sua madre dagli orrori della dittatura nordcoreana, Yeonmi Park ha da subito dato voce alle tragiche condizioni e repressioni del suo paese diventando testimone diretta di quel mondo raccontato in interviste televisive e nei suoi libri. Tuttavia, come racconta il Washington Post, la storia di Park è stata messa in discussione negli ultimi anni. Alcuni sostengono che le sue storie siano state inventate o alterate, mentre altri credono che Park sia stata utilizzata come strumento politico da gruppi conservatori. Diventata ormai parte attiva del dibattito pubblico statunitense, la giovane ragazza si autodefinisce “the enemy of the woke”, crede che l'America sia sull'orlo della dittatura liberale e che la cancel culture nei college statunitensi sia il primo passo verso il regime nordcoreano. Il voler mettere sullo stesso piano la dittatura della Corea del Nord e la cultura liberale statunitense ha trovato ampio consenso tra i conservatori che sfruttano il suo personaggio per criticare il governo. La questione della credibilità di Park è complessa. Da un lato, è importante ascoltare le storie dei dissidenti nordcoreani. Dall'altro lato, è importante essere prudenti nel crederci. Ma perché arrivare a distorcere e manipolare la propria esperienza, esasperando realtà già disumane come la dittatura, per ottenere consenso ed affiliarsi ad una fazione politica? Una società costantemente ossessionata dalla teatralità e dalla celebrità crea costantemente per la sua stessa sopravvivenza dei “personaggi mediatici” costretti a sposare una o l’altra causa, anche a costo di tradire se stessi e la propria verità.



Torna la retorica di Mao


La Cina ritorna alle origini del comunismo. Con la Nato che identifica sempre più la Repubblica Popolare come una “sfida sistemica”, i cinesi non si vogliono farsi trovare impreparati in caso di intervento bellico formando le giovani leve dell’esercito già in tenera età. Il Partito ha approvato la nuova bozza di legge sull'educazione patriottica e sta spingendo all’arruolamento sia studenti diplomati che universitari. Come spiega Wired, il governo vuole ottenere lo svecchiamento delle forze armate per rispondere a due necessità: accelerare l’ammodernamento militare e risolvere il problema della disoccupazione giovanile che ormai ha raggiunto livelli record. Ma la disciplina secondo il Partito deve iniziare fin dall’infanzia e per questo sta incentivando la creazione dei campi di addestramento per bambini. Si tratta di centri che si propongono di “formare il carattere” dei giovani cinesi prevalentemente di classe media che trascorrono lì il periodo estivo. Secondo i genitori si tratta di una buona occasione per far acquisire ai loro figli nuove competenze e un vantaggio competitivo rispetto ai coetanei. Questi campi estivi, il cui mercato dal 2018 al 2021 è quintuplicato, sono progettati per mettere alla prova i partecipanti tra escursioni in montagna, trekking nel deserto e addestramento militare, spesso con norme di sicurezza non garantite vista la scarsa regolamentazione del settore. Accanto al settore militare, il Partito comunista sta promuovendo la vita contadina e il mondo ruralecon il reality Become a Farmer in cui 10 celebrities cinesi devono tentare la fortuna raggiungendo il successo nell’agricoltura. Sembra che nella nuova era della Cina non ci sia spazio per le innovazioni.



Essere influencer: minaccia o opportunità?


Un influencer online è stato arrestato a Dubai per aver realizzato un video satirico su TikTok in cui interpretava un emiratino che faceva acquisti sfrenati in una concessionaria di auto di lusso. Il video, come spiega un articolo del Time, prendeva in giro lo stile di vita sontuoso della città, nota per i suoi grattacieli scintillanti e le attrazioni turistiche esagerate. Nonostante Dubai sia più tollerante dal punto di vista sociale rispetto ad altre parti del Medio Oriente, alcune leggi vietano qualsiasi forma di discorso critico nei confronti delle autorità o offensivo per il Paese. Questo arresto si aggiunge a una serie di casi che sollevano questioni sulla libertà di espressione. Un discorso non molto lontano da quello che succede in Paesi come la Russia o la Cina, dove il controllo di ciò che viene pubblicato online ha come obiettivo quello di evitare qualsivoglia tipo di ripercussione sulla reputazione del paese. In Cina, ad esempio, il ruolo degli influencer assume particolare importanza per definire l’immagine della nazione all’esterno: i media statali e i governi locali hanno organizzato e finanziato i viaggi degli influencer pro-Pechino. Oltre ad offrire denaro, il governo ha generato traffico online per gli influencer condividendo i video con milioni di seguaci su YouTube, Twitter e Facebook (vedi Editoriale 62). Anche nella lotta tra governo Biden e l’oppositore Trump l’uso degli influencer è diventato un’arma utile ai propri fini propagandistici: da una parte, per il presidente Usa, una strategia digitale che punterebbe a reclutare un esercito di influencer e creator indipendenti per raggiungere gli elettori più giovani, fondamentali nella sua elezione (vedi Editoriale 125), dall’altra per Trump un esercito di influencer chiamato a creare una narrativa del complotto online (vedi Editoriale 122). In tuti questi casi la figura dell’influencer si staglia come snodo intorno a cui oggi può ruotare la comunicazione, in un vortice che, a seconda del Paese in cui ci si ritrova, può apparire come minaccia o come opportunità.

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