Editoriale 64
La comunicazione sui media
27 - 02 gennaio
4 gennaio 2022
A scuola di disinformazione. La propaganda del Cremlino passa anche da Netflix. L’innovativa censura cinese. Influencer o impiegati pubblici? Repubblicani e Twitter. Hong Kong: un anno di censure.
La Redazione
A scuola di disinformazione
La fine dell’anno offre l’occasione per fare un bilancio sulla situazione circa la disinformazione in Europa. Tra i paesi più “diffusori” di fake news troviamo Russia e Cina. Come riporta Linkiesta, il progetto Eu vs Disinfo del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (EEAS) nel 2021 ha scoperto più di 2.700 casi di fake news da parte della Russia ai danni dell’Europa. E quelli censiti sono solo la punta dell’iceberg. Allo stesso tempo secondo il Center for European Policy Analysis, il Partito comunista cinese sta copiando alcuni aspetti della strategia alla base della disinformazione di Mosca, ma ha un controllo dei media più coerente rispetto al Cremlino, che a volte diffonde messaggi contrastanti persino rispetto a fonti governative come il ministero degli Esteri. Il dato preoccupante è la convergenza, sempre più organica, tra queste grandi potenze. Le prove generali sono state all’inizio della pandemia, nella primavera 2020, quando le teorie cospirative fatte circolare dalla galassia filorussa facevano comodo pure al gigante asiatico per mettere a tacere l’ipotesi di un’origine cinese del coronavirus. Nel 2021 l’allineamento si è ripetuto, segnala il report di fine anno dello EEAS, che in passato per le stesse accuse era stato modificato dopo le pressioni di Pechino. Entrambe le potenze hanno negato le violazioni ai diritti umani subite dalla minoranza degli Uiguri, entrambe hanno sfruttato il caos in Afghanistan per danneggiare l’immagine dell’Occidente “traditore”. La Cina, notano gli studiosi, ha risorse enormemente superiori a quelle russe. Eppure, finora il Cremlino ha ottenuto risultati migliori, soprattutto in termini di polarizzazione. Ma sembra che Pechino stia imparando la “lezione” di Putin.
La propaganda del Cremlino passa anche da Netflix
A partire dal prossimo marzo, Netflix in Russia sarà costretta a trasmettere venti canali di stato. Così, accanto a thriller, drammi e commedie romantiche, gli utenti russi potranno sintonizzarsi sui canali della propaganda del Cremlino, compreso Spas, il canale della chiesa ortodossa russa, e Russia 1, che trasmette “Mosca. Cremlino. Putin”, un programma televisivo settimanale dedicato alle attività del presidente. Come riportato dal Times, la decisione è stata presa a fine dicembre, dopo che l’agenzia per le telecomunicazioni Roskomnadzor ha aggiunto Netflix alla lista dei servizi audiovisivi. Il registro richiede che i servizi di streaming con più di 100.000 utenti giornalieri ospitino anche i principali canali televisivi russi. I servizi di streaming sono anche sottoposti alle leggi russe, compreso il divieto di trasmettere contenuti estremisti che riguardino le indagini sulla corruzione del Cremlino portate avanti da Alexei Navalny, il leader dell’opposizione imprigionato. Si stima che Netflix abbia circa un milione di clienti paganti in Russia e la decisione è arrivata mentre il Cremlino inasprisce le restrizioni sulle aziende tecnologiche statunitensi. A dicembre,un tribunale di Mosca ha ordinato a Google di pagare una multa di 7,2 miliardi di rubli (71 milioni di sterline) per la mancata rimozione di migliaia di messaggi che avrebbero promosso l'estremismo, insultato i credenti religiosi e incoraggiato comportamenti pericolosi tra i minori. Anche Meta, la società madre di Facebook, è stata multata di quasi due miliardi di rubli per lo stesso reato. Con il dilagare della pandemia e le tensioni in Ucraina, il Cremlino non vuole di certo diminuire la forza della propria propaganda e perdere il controllo sull’opinione pubblica.
L’innovativa censura cinese
Il governo cinese, che nel tempo ha costruito una vasta infrastruttura digitale e un apparato di sicurezza per controllare il dissenso sulle proprie piattaforme, sta utilizzando sofisticati programmi investigativi per smascherare e mettere a tacere coloro che criticano il Paese su Twitter, Facebook e altri social network. Secondo uno studio condotto dal New York Times, che ha esaminato documenti legali relativi ad appalti pubblici e ha intervistato persone perseguitate dalla Cina, per dare la caccia alle persone la polizia si avvale di software molto avanzati, registri pubblici e database per trovare tutte le loro informazioni personali e la loro presenza sui social internazionali. Questa “caccia all’uomo” digitale a volte prende di mira anche coloro che non vivono più in Cina oppure cittadini non cinesi. Le persecuzioni fanno parte della più ampia strategia del governo cinese di eliminare ogni rappresentazione negativa del Paese. L'obiettivo finale è incoraggiare l'autocensura già molto diffusa tra gli utenti cinesi sui social media. Da quanto emerso da una fonte interna al governo cinese che si occupa di appalti pubblici, ogni volta che viene segnalato un post “critico” nei confronti della Cina, questo viene classificato in base alla gravità della violazione e inizia un’indagine approfondita sull’utente che l’ha pubblicato: informazioni sensibili, comprese le informazioni personali e di carriera e le connessioni professionali e familiari con la Cina, oltre ad un'analisi statistica della portata dell'account della persona. In alcuni casi la polizia ha condotto veri e propri interrogatori ai familiari della persona “incriminata”, a cui sono seguite minacce e persecuzioni. Il governo cinese si sta servendo della tecnologia per diffondere un clima di terrore e gli utenti dei social network stanno ormai diventando sempre più cauti in modo da non perdere quel briciolo di libertà che rimane.
Influencer o impiegati pubblici?
Come riporta il Financial Times, Pechino fa grandi sforzi per controllare i contenuti online, in particolare quelli prodotti dagli influencer (vedi Editoriale 62). L’obiettivo del governo cinese, infatti, è promuovere contenuti sani ed educativi, cercando di depennare quelli che promuovono stili di vita non in linea con i valori del partito comunista cinese. Per dare dei numeri, solo nell’anno appena trascorso l'Amministrazione del Cyberspazio cinese ha eliminato 20.000 account di influencer a causa di “diffusioni di contenuti fuorvianti e inquinamento dell'ambiente interne”. Proprio per questo – come sottolineando anche da Cara Wallis, professore della Texas A&M University - le celebrità dei social media si muovono in una comfort zone promuovendo contenuti diversi rispetto al passato, ponendosi spesso in linea con i temi cari al partito che, tra i suoi scopi, annovera il trasmettere un’immagine positiva del paese, degli usi e dei costumi.
Repubblicani e Twitter
Il 2 gennaio l’account Twitter personale di Marjorie Taylor Greene, parlamentare repubblicana dello stato della Georgia, è stato bloccato dall’azienda americana per diffusione di fake news sulla pandemia; nel post che avrebbe determinato la sanzione, la rappresentante Repubblicana avrebbe sostenuto l’esistenza di una “quantità estremamente elevata di decessi per vaccino anti-Covid”, come riportato in un articolo del Financial Times. È ormai trascorso un anno dal dibattuto ban nei confronti di Donald Trump dalla medesima piattaforma social e da allora la politica contro la disinformazione su Twitter ha determinato una crescente severità nel controllo dei contenuti, a tutela, secondo l’azienda, della capacità di consenso informato dell’utenza, messa a rischio dalla propagazione di fake news. La sospensione a tempo indeterminato giunge come quinta sanzione nei confronti della parlamentare, come da policy aziendale, di cui la penultima ad agosto, che comportò una sospensione per 7 giorni. Rimane comunque inalterato il suo account ufficiale del Congresso. Il secondo caso di sospensione dell’account di un parlamentare statunitense ha riaperto nuovamente il dibattito sulla sezione 230 del Communications Decency Act, che garantisce il potere di rimozione di contenuti online da parte delle aziende, ma che, secondo i Repubblicani, verrebbe strumentalizzato per favorire i Democratici censurando il dibattito. Altresì questi ultimi si sono espressi contro la disposizione regolamentare, pretendendo tuttavia, in senso opposto, una responsabilità dei big tech in caso di mancata rimozione di contenuti abusivi.
Hong Kong: un anno di censure
Per i media di Hong Kong il 2021 si è concluso esattamente com’era iniziato: il sito web Stand News è stato infatti chiuso in poche ore dopo un raid della polizia che, dopo il popolare tabloid Apple Daily (vedi Editoriale 42), ha messo da parte un altro media pro-democrazia. Come raccontato da The Guardian, Nathan Law, attivista pro-democrazia in esilio, ha commentato l’ennesimo episodio di censura sostenendo che il governo sta rendendo illegale fare un reportage onesto, offrendo unicamente la possibilità di parlare solo degli aspetti positivi del governo. Il caso non è nuovo in Cina, dove già abbiamo assistito a diversi episodi non solo verso i media ma anche nei confronti del cinema (vedi Editoriale 39). Ciò che adesso lascia ancora più sorpresi è la costanza con cui avvengono questi eventi, oltre al loro basso rilievo sui media internazionali.