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Editoriale 51

La comunicazione sui media
27 - 03 ottobre

5 ottobre 2021

Campagne poco social, toni pacati e nostalgia del fascismo nelle amministrative. Cina e censura, la storia continua. Tutti contro Facebook, con uno sguardo all’Australia. Trump ci riprova. L’ottimismo di Pinker che piace ai Potenti.

La Redazione


Campagne poco social e dai toni pacati nelle amministrative


I risultati delle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre hanno portato a galla elementi di interesse per l’analisi politica nel Paese, mentre nessuna novità si è profilata nelle strategie comunicative adottate dalle forze in gioco, in primis tra i candidati del centrodestra. Proprio la mancanza di innovazione in campagna elettorale sarebbe una delle principali ragioni, secondo Formiche, della debacle della coalizione conservatrice, che non ha fatto ricorso alle tecniche ormai tipiche per generare attenzione e raccogliere consensi: una forte presenza sui social media, che diventa strumento proprietario per raccontare all’elettorato l’andamento della campagna e presentare i punti chiave del proprio programma politico. Il mancato impiego di queste strategie comunicative, anche nelle principali città della penisola (con la sola parziale eccezione di Roma, come spiegato da Formiche in un altro articolo), trova spiegazione nell’insolita situazione politica a livello nazionale.  Infatti, le forze che si sono scontrate in questa tornata elettorale a livello locale sostengono, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, il medesimo governo a livello nazionale. Questa ragione, cui si aggiungono le difficoltà in seno al centrodestra nel reperire candidati noti al pubblico, che fossero espressione al contempo di un compromesso tra un partito di maggioranza (Lega) e uno d’opposizione (Fratelli d’Italia), rispettivamente messi in difficoltà, oltretutto, da malcontenti interni e, nel secondo, dalla recente inchiesta svolta da Fanpage, sarebbero pertanto la causa del basso profilo di questa campagna elettorale, dai toni più morbidi e poco digitali. Già nota è altresì la tecnica delle forze politiche in svantaggio di ridurre in anticipo le aspettative e abbassare le attenzioni sui risultati, per dare l’impressione che il risultato finale non costituisca una reale sconfitta.



Elezioni amministrative: tra “black” e nostalgia del Fascismo


Fanpage ha pubblicato il video di un’inchiesta che rivela un sistema di finanziamenti in nero per la campagna elettorale di Chiara Valcepina, candidata alle comunali di Milano nella lista di Fratelli d’Italia, e mostra i dirigenti locali del partito di Giorgia Meloni inneggiare al fascismo con saluti romani e slogan mussoliniani. Come riporta il Post, il video ha creato forti discussioni alla vigilia delle elezioni amministrative ed è stato girato da un giornalista infiltrato che si è finto un uomo d’affari interessato a finanziare un partito in cambio di favori per la propria azienda. I protagonisti centrali del video sono due personalità molto note a Milano, entrambe provenienti dagli ambienti dell’estrema destra: il primo è Roberto Jonghi Lavarini, soprannominato il Barone nero, da sempre vicino a Lealtà e Azione e sul quale pende una condanna a due anni per apologia di fascismo; il secondo è Carlo Fidanza, eurodeputato ed esponente di spicco di Fratelli d’Italia, autosospesosi dal partito. Nonostante i tanti momenti, la parte più rilevante del video è girata durante un evento elettorale di Chiara Valcepina: Fidanza chiama da parte il giornalista, chiedendo finanziamenti per la campagna elettorale ed espone due alternative di azione: versare sul conto corrente dedicato oppure fare “black”, e cioè versare denaro in nero, con cui la Valcepina avrebbe successivamente pagato l’aperitivo elettorale e coperto altre spese. L’inchiesta, oltre al grave sistema di finanziamenti in nero, ha portato alla luce una sconcertante faccia della politica nostrana: la nostalgia del Fascismo, condannata dalla nostra Costituzione ma, evidentemente, sempre presente in maniera preoccupante all’interno di certi ambienti politici.



Cina e censura, la storia continua


Nell’ultimo periodo la scena cinematografica di Hong Kong è diventata l'ultima forma di espressione ad essere censurata da quando Pechino ha imposto una nuova dura legge sulla sicurezza nazionale all'ex colonia britannica lo scorso anno. In particolare la capitale asiatica del cinema ha dato un giro di vite ai documentari e alle produzioni indipendenti che teme possano glorificare il movimento pro-democrazia. Come riporta il New York Times, la regista di "Far From Home", un breve film su una famiglia presa nel tumulto delle proteste antigovernative del 2019 a Hong Kong, ha dovuto fare 14 tagli dal film di 25 minuti. Inoltre le è stato detto di cambiare il titolo e che i dialoghi che esprimono simpatia per un manifestante arrestato dovevano essere eliminati. Oltre alla legge sulla sicurezza nazionale, il governo ha in programma di inasprire le sue politiche di censura per permettergli di vietare o forzare i tagli ai film ritenuti "contrari agli interessi della sicurezza nazionale". Tali poteri sarebbero anche retroattivi, il che significa che le autorità potrebbero vietare film che sono stati precedentemente approvati. Le persone che mostrano tali film potrebbero affrontare fino a tre anni di prigione.  I bersagli più probabili delle nuove regole, che dovrebbero essere approvate questo autunno dalla legislatura di Hong Kong, sono i documentari indipendenti e i film di finzione che toccano le proteste e la politica di opposizione. Spostandoci a Pechino, dopo le misure contro imprenditori del mondo della finanza e nel settore tech, il governo cinese si prepara per una campagna contro la cosiddetta “cultura delle celebrity” (Vedi caso Jack Ma e Alibaba Editoriale 17 e Editoriale 27). Che cosa accade quando un personaggio noto dello spettacolo, con milioni di follower sui social e un seguito importante, non condivide le linee politiche delle autorità? Semplicemente sparisce, almeno dalla rete. Il Partito Comunista Cinese sfrutta la collaborazione con artisti finché propedeutica alla propaganda del governo, ma quando questi artisti diventano “troppo influenti”, vengono messi a tacere. È quello che è successo alla famosa attrice Zhao Wei.  La prova che nessuno in Cina, non importa quanti soldi o popolarità abbia, è troppo grande per essere perseguitato.



Tutti contro Facebook


Facebook continua ad essere al centro dell’attenzione in balia di una profonda crisi reputazionale che non si vedeva dai tempi dello scandalo di Cambridge Analytica (vedi Editoriale 8). Il colosso di Menlo Park è nuovamente sotto attacco da parte dell’opinione pubblica specialmente a seguito dalle recenti dichiarazioni di un’ex dipendente di Facebook, Frances Haugen, fonte segreta dell’inchiesta “Facebook Files” con cui il Wall Street Journal ha portato avanti un’inchiesta capace di evidenziare le storture del social di Zuckerberg (vedi Editoriale 49). L’inchiesta ha rivelato come Facebook contribuisca alla diffusione di contenuti divisivi, avvantaggi gli utenti più potenti e i politici nella moderazione dei loro contenuti e soprattutto come Facebook stessa sia a conoscenza degli effetti negativi che i social hanno sulla salute mentale dei giovanissimi e in particolare delle ragazzine. Ricerche hanno infatti già lanciato un allarme sugli effetti che Instagram possa avere sulla psiche dei giovani ma nessuno ha pensato di intervenire e proprio da questo sono partite le accuse del Wall Street Journal, come riportato dal Corriere della Sera. La risposta di Facebook non è tardata ad arrivare e ha tentato di smontare l’inchiesta ritenuta fuori contesto e parziale. Il dibattito è ancora agli albori ma sembra avere il potere di lasciare una cicatrice sul social di Zuckerberg. Arriverà il vero cambiamento?



La CNN abbandona Facebook in Australia per prevenire eventuali responsabilità


Come riporta The Guardian, la CNN è diventata la prima grande società mediatica a disabilitare la sua pagina Facebook (vedi Editoriale 5) in Australia, citando una decisione dell'alta corte in cui si diceva che gli editori sono legalmente responsabili dei commenti pubblicati sotto i loro post. Dato che Facebook si è rifiutata di disabilitare i commenti sotto gli articoli della CCN, il gigante mediatico non ha avuto quindi altra scelta che cancellare la propria presenza; questo, per proteggersi dai commenti degli utenti e da eventuali responsabilità. Difatti, la maggioranza della corte suprema ha trovato che facilitare e incoraggiare i commenti equivaleva a una "partecipazione" alla comunicazione di materiale diffamatorio. Ora ci si aspetta che la decisione abbia ampie ripercussioni anche sulle aziende mediatiche australiane, così come sui politici che gestiscono pagine Facebook o altri account sui social media. Questi, infatti, dovranno moderare attentamente tutti i commenti in ogni momento e cancellare i contenuti potenzialmente diffamatori, tenendo conto che Facebook non permette di cancellarli in massa, bensì uno a uno. Anche altri gruppi editoriali seguiranno la scia della CNN?



Trump ci riprova


Donald Trump ha chiesto al giudice della Florida di costringere Twitter a ripristinare il suo account. Come riporta il The Guardian, Trump aveva già fatto causa a Twitter, Facebook e Google, e ai loro amministratori delegati, sostenendo di aver messo a tacere illegalmente i punti di vista dei conservatori. Ora Trump richiede un’ingiunzione preliminare contro Twitter, accusando la società di essersi piegata alle pressioni dei suoi avversari politici al Congresso. Le varie piattaforme contro cui si è scagliato Trump hanno sostenuto che l’ex presidente aveva violato le loro politiche contro l’incitamento alla violenza (dopo che centinaia dei suoi sostenitori avevano preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio). Un dilemma, però, sorge ora spontaneo: è giusto limitare gli account dei personaggi politici? Secondo quanto dichiarato da Jillian York, attivista e responsabile della libertà d’espressione per Eff (Electronic Frontier Foundation, ong in difesa dei diritti civili online), a Wired la questione è controversa. È necessario che le piattaforme social trattino le figure pubbliche come normali utenti, che devono rispettare regole di comportamento. Forse però, proprio per il loro ruolo pubblico, sarebbe necessario richiedere standard di comportamento più elevati. Invece sembra esserci maggior tolleranza nei loro confronti. Allo stesso tempo York si chiede se sia giusto oppure no che Mark Zuckerberg, pur non essendo stato eletto democraticamente, abbia il diritto di “zittire” persone che, in un modo o nell’altro, sono state scelte direttamente dal popolo.



L’ottimismo di Pinker che piace ai Potenti


The Guardian racconta di Steven Pinker, psicologo cognitivista e autore di diversi best seller - come “The Better Angels of Our Nature” (2011), tra i consigliati da Mark Zuckerberg e definito da Bill Gates “il libro di maggiore ispirazione che abbia mai letto”. Attivo dagli anni '90, Pinker è diventato noto ai più nell’ultima decade, soprattutto per la sua visione del mondo: mentre gran parte degli autori trattavano di come la società fosse al tracollo, lui sosteneva che le cose erano, in effetti, migliori che mai. Uno “spin” positivo che lo ha portato nell’orbita di molti potenti - stando al Guardian il telefono dell’autore ospita, tra gli altri, i numeri di Justin Trudeau e del fu presidente dell’Argentina Mauricio Macri. Nonostante ritenga di offrire ai leader globali "un'infusione di idee - o anche solo di entusiasmo per la buona, vecchia democrazia liberale", agli occhi dei critici Pinker non può che risultare il più noto difensore dello status quo. In un momento di disuguaglianze e di catastrofi ecologiche, le sue idee per il mondo - fare fondamentalmente la stessa cosa che abbiamo fatto, solo un po' meglio - possono però sembrare inopportune e certamente alla sua immagine non giova che molti dei suoi promotori più affiatati appartengano alla “casta” dei miliardari - lo stesso Bill Gates secondo Oxfam possiederebbe, insieme ad altri sette uomini, tanta ricchezza quanto i 3,5 miliardi di persone più povere del pianeta.

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