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Editoriale 156

La comunicazione sui media
11 - 17 dicembre

19 dicembre 2023

Parlare ad un paese che non esiste. Trump è “i media conservatori”. Ascesa e declino di Twitter. Perché i giornali hanno ignorato la teoria della fuga da laboratorio. COP28: predicare bene razzolare male. I protettori della reputazione. Maledetti tabloid.

La Redazione

Parlare ad un paese che non esiste


16.000 parole, 75 minuti di lettura, per accusare il New York Times di aver “perso la strada”. Con un feroce attacco, l’ex responsabile della sezione Opinion del quotidiano newyorkese, James Bennet, ha dipinto un’immagine poco lusinghiera di The Grey Lady. Oggi Bennet è l’autore di Lexington, la rubrica americana dell’Economist, e nell’ultimo numero  si è tolto qualche sassolino interrogandosi sullo stato di salute del suo ex giornale, e più in generale dell’informazione con una parentesi sulla morte del pluralismo. Come noto, nel 2020 Bennet si è dimesso dal Times con effetto immediato dopo le polemiche (anche) interne contro l'editoriale firmato dal senatore Tom Cotton che invocava l'uso dell'esercito contro i manifestanti in piazza per la morte di George Floyd. L’autore di Lexington sostiene che “la realtà è che il Times sta diventando il mezzo attraverso la quale l'élite progressista americana parla a se stessa di un'America che in realtà non esiste”. Non è tardata ad arrivare la risposta dell’editore del NYT, la famiglia Sulzberger, che da un lato concorda con Bennet su alcune delle sfide che il giornalismo deve affrontare, ma dall’altro “non potrebbe essere più in disaccordo con la falsa narrativa che ha costruito sul Times”.



Trump è “i media conservatori”


Dalla sua candidatura alle primarie repubblicane per le elezioni del 2016, Donald Trump ha spazzato via l’iniziale opposizione dei media di destra. Da allora, come scrive l’Economist, la maggior parte dei media conservatori si sono conformati alla sua visione politica mentre altri hanno tentato, senza riuscirci, di persuadere gli elettori repubblicani ad abbandonarla. Per gran parte della storia americana, i media più influenti sono stati partigiani o ideologici – se ne lamentò persino George Washington. Il Wall Street Journal, il Washington Times, e altri hanno influenzato la presidenza di Reagan. Per decenni Fox News e Limbaugh, insieme a testate come National Review, hanno mantenuto saldi i principi del partito repubblicano. Poi l’era di Internet. Blog, podcast e social mediahanno fornito alle persone la possibilità di diventare influente al di fuori dell’ecosistema tradizionale. Lo stesso Trump, che si è affidato ai media tradizionali nel 2016, tramite Twitter ha iniziato a definire l’agenda giornalistica delle testate: “è Trump che stabilisce la linea. E poi tutti gli altri seguono", afferma Rich Lowry, redattore capo di National Review. “Lui è i media conservatori”. Nel 2015 un conservatore di lunga data, Ben Shapiro, ha co-fondato il Daily Wire. L'azienda ha guadagnato circa 200 milioni di dollari nel 2022 e, a novembre, è stata il settimo editore di podcast in America. Ma nemmeno i nuovi arrivati possono intaccare Trump: Shapiro ha sostenuto la candidatura di Ron DeSantis nelle primarie repubblicane, ad oggi senza successo dato che difficilmente il governatore della Florida riuscirà a ridurre il distacco dall’ex inquilino della Casa Bianca. La potenza mediatica di Trump ha senza dubbio indebolito i grandi giornali di destra, per questo anche l’Economist condivide il pensiero di Lowry.



Ascesa e declino di Twitter


Per oltre un decennio Twitter ha rappresentato un punto di riferimento per i media, i politici e le persone in generale. In un’ampia analisi The Verge ripercorre l’ascesa e l’evoluzione di questo social, sottolineando le conseguenze che ha avuto sul mondo dell’informazione. Dopo solo tre anni dal suo esordio nel 2006, la piattaforma era diventata un “nuovo tipo di rete informativa”: le persone andavano su Twitter per scoprire cosa stava succedendo e i giornalisti, vedendo un pubblico in tempo reale interessato alle notizie, hanno iniziato a parlare direttamente con quelle persone. Mentre Facebook gonfiava i dati dei suoi video e Mark Zuckerberg iniziava a dare più spazio agli influencer su Instagram, i giornalisti continuavano a postare gratis su Twitter, trasformandolo in uno strumento essenziale per la raccolta delle informazioni. Twitter “ha concentrato la conversazione tra le élite tecnologiche, mediatiche e politiche”, Facebook invece si rivolgeva alle masse, con il risultato che la prima è diventata un oggetto di potere, ha lanciato e plasmato carriere e ha catalizzato alcuni dei grandi movimenti sociali del nostro tempo, da Black Lives Matter a #MeToo fino ai diritti dei trans. Allo stesso tempo, però, questa qualità si è rivelata distruttiva per il giornalismo: i reporter di tutto il mondo hanno sempre più spesso creato storie per l'algoritmo invece che per i loro lettori reali mentre i gruppi editoriali per cui lavoravano hanno dovuto affrontare l'esodo dei loro maggiori inserzionisti pubblicitari verso altre piattaforme social, oltre al fatto che le notizie si sono drasticamente “appiattite”. Lo scorso anno Elon Musk ha acquistato Twitter (X), segnando la fine di un’era e portando la piattaforma verso un esito incerto (vedi Editoriale 78 ed Editoriale 80). Negli ultimi mesi un nuovo social si è affacciato sul mercato: Threads, che ha promesso fin da subito di essere migliore di Twitter perché non ha intenzione di “fare informazione” (vedi Editoriale 151). Questo porterà a un panorama social sicuramente più frammentato, e non è detto che per il giornalismo sia una cattiva notizia.



Perché i giornali hanno ignorato la teoria della fuga da laboratorio


A distanza di quasi 4 anni dall’inizio della pandemia da Covid, Press Gazzette ha condotto una ricerca per indagare sul perché la teoria della fuga dal laboratorio di Wuhan sia stata ignorata dalle principali testate giornalistiche. Dalla ricerca è emerso che nonostante fonti credibili avessero esortato il New York Times a indagare sul laboratorio di Wuhan, il giornale ha esitato. Non solo. Gli scienziati consulenti di Anthony Fauci avevano affermato che la teoria della fuga da laboratorio fosse falsa anche se l’avevano presa seriamente in considerazione. E, come se non bastasse, articoli accademici pubblicati su The Lancet e Nature Medicine hanno smentito tale teoria senza prove concrete. Sul tema delle origini del Covid anche il razzismoha giocato un ruolo importante poiché i giornalisti temevano di essere accusati qualora avessero proposto di indagare sul laboratorio cinese. Il tutto mentre a Trump non mancavano affermazioni razziste nei confronti della Cina. Ad aggiungersi a questo già complesso quadro sono le piattaforme social dove avviene la maggior parte dei dibattiti, piattaforme che per loro stessa natura sono portate a semplificare ed eliminare le complessità di un tema, a volte necessario, rendendolo alla portata di tutti. Va tuttavia segnalato che sicuramente non è mancata la copertura mediatica del laboratorio di Wuhan ma, dati i sette milioni di morti, è interessante notare come i principali media abbiano impiegato così tanto tempo per indagare in profondità sulle origini della pandemia. Probabilmente uno dei motivi è che diversi giornalisti scientifici sono stati messi da parte, lasciando gran parte del lavoro investigativo a giornalisti senza quel tipo esperienza.



COP28: predicare bene razzolare male


Nel corso del vertice delle Nazione Unite sul clima, COP28, che si è tenuto nei primi giorni di dicembre a Dubai (vedi Editoriale 154), i leader mondiali si sono congratulati con loro stessi per il primo accordo in assoluto che parla di “transizione” dai combustibili fossili. Il tutto mentre le emissioni globali continuano a salire e il consumo globale di carbone è in procinto di battere i record; la produzione di petrolio e gas è in piena espansione negli Stati Uniti e la forte domanda di gas in Asia e Medio Oriente sta compensando il calo dei consumi in Europa. Come scrive Scientific American, la narrazione della COP28 è in netto contrasto con la nostra dipendenza dai combustibili fossili. Le prospettive climatiche del mondo sono sostanzialmente migliorate dopo l'Accordo di Parigi del 2015, che ha spostato l'ago della bilancia sulle emissioni, eppure ci sono poche prove che suggeriscono che l'abbandono dei combustibili fossili sia all'orizzonte. L'accordo elaborato negli Emirati Arabi Uniti, sebbene chieda di abbandonare gradualmente i combustibili fossili, è stato criticato per la sua vaghezza. Il testo segna la prima volta che un patto globale sul clima include un riferimento esplicito alla riduzione del consumo di queste risorse, ma il suo inserimento è avvenuto dopo un'accesa trattativa a Dubai, con le nazioni produttrici di petrolio come l'Arabia Saudita e quelle in via di sviluppo come l'India che si sono schierate contro l'esplicita richiesta di eliminare gradualmente i combustibili fossili, sostenendo come essi rimangono fondamentali per lo sviluppo economico. Se il passato è prologo, questo non porterà a un cambiamento significativo nei mercati energetici in tempi brevi.



I protettori della reputazione


Le pubbliche relazioni sono cambiate negli ultimi anni: i relativi professionisti oggi dovrebbero farsi chiamare “protettori della reputazione”. Si tratta di un asset di vitale importanza e lo dimostra anche uno studio del World Economic Forum, secondo cui fino al 25% del valore di mercato di un'azienda si basa sulla reputazione. Come riportato da Axios, recentemente diversi responsabili della comunicazione si sono ritrovati, in un evento organizzato dalla testata americana, per ribadire l'importanza di gestire, proteggere e migliorare la reputazione. Dal confronto è emerso che “tutto ha una componente reputazionale”, motivo per cui nei consigli di amministrazione delle aziende sarebbe opportuna la presenza del comunicatore (vedi Editoriale 154). Inoltre, per molti dei manager coinvolti, i dipendenti devono essere la priorità per l’azienda perché, come ha sottolineato Cheng Meservey - EVP corporate affairs & chief communications officer di Activision Blizzard -, “una crisi esterna è scomoda ma una crisi interna è esistenziale” e può causare danni maggiori.



Maledetti tabloid


La stampa britannica è in una situazione di pericolo che non può più ignorare. Questa la tesi sostenuta, all’indomani del verdetto della causa che vede coinvolti il duca di Sussex Harry e il Daily Mirror, dal Guardian, unico quotidiano britannico a dedicare la prima pagina alla “vittoria” del secondo figlio di re Carlo, dodici anni dopo avere rivelato la pratica illegale e non etica delle intercettazioni illegali. La stampa sta, insomma, deliberatamente ignorando una storia che vede coinvolti ancora un centinaio di querelanti, uno scandalo che non si concluderà tanto presto e che contribuirà in maniera determinante alla crisi reputazionale che il mestiere sta già vivendo… oppure, al contrario, quello che sembra il colpo di grazia definitivo potrebbe, in realtà, rivelarsi un’opportunità da sfruttare per recuperare credibilità e autorevolezza. Infatti, con tutti i suoi difetti il giornalismo britannico resta il mezzo migliore a disposizione della società per prevenire l’abuso di potere. Paradossalmente, è stato proprio il giornalismo a scoprire lo scandalo che coinvolge, tra gli altri, Harry d’Inghilterra, non un servizio di polizia o la politica. Resta, insomma, la possibilità di compiere una scelta: da qui devono partire i media per ricostruire la propria credibilità, e la scelta di utilizzare la tecnologia in modo etico rappresenta un ottimo punto di partenza. E questo è un discorso che va ben oltre i trend e i timori del momento.

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