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Editoriale 148

La comunicazione sui media
16 - 22 ottobre

24 ottobre 2023

Guerra di parole. Come comunicano i CEO durante una crisi geopolitica. Le bombe rompono le barriere di protezione dei social. Il conflitto divide anche l'industria dello spettacolo. Nuove tecniche di comunicazione per un vecchio candidato. Uno storytelling per cambiare. E adesso arriva Tucker.

La Redazione


Guerra di parole


Da quando si è riacceso il conflitto in Medio Oriente, tra Israele e Hamas (vedi Editoriale 147), i media si sono ritrovati a combattere un’altra guerra, quella delle parole. Si tratta di una guerra sottile, come spiega il Washington Post, ma non meno insidiosa, perché le parole sono fondamentali, soprattutto per le testate giornalistiche che cercano di preservare l'accuratezza e l'imparzialità in momenti di grande concitazione e incertezza. Un termine sbagliato in un resoconto mediatico può suscitare rapide critiche da parte di lettori, ascoltatori e spettatori. Quando uomini armati provenienti da Gaza hanno attraversato Israele e ucciso circa 1.400 persone, i giornalisti hanno discusso su come descrivere chi fossero: secondo i conduttori della CNN e di Fox News erano “terroristi”, per il Washington Post e la BBC dei “militanti”, e ancora “uomini armati” per NPR e “combattenti” per Al Jazeera. Alcuni giornalisti non sono nemmeno sicuri su come riferirsi alla violenza. È una guerra o solo un conflitto? E chi sono gli avversari? Israele e Gaza, Israele e Hamas o Israele e i palestinesi? È un gioco di equilibri tra la ricerca dell'accuratezza e il rischio di alimentare una situazione instabile. L'episodio che ha generato più clamore mediatico finora ha riguardato la copertura dell’esplosione in un ospedale di Gaza che ha ucciso un numero imprecisato di persone la scorsa settimana. Diverse organizzazioni giornalistiche - Reuters, Associated Press, MSNBC, Politico, New York Times, Axios - hanno inizialmente indicato che l'esplosione proveniva da un attacco aereo israeliano. Queste notizie si basavano sulle dichiarazioni del Ministero della Salute di Hamas, una fonte di dubbia credibilità, e hanno contribuito alle violente proteste di piazza in tutto il mondo arabo. Ma poche ore dopo i funzionari israeliani hanno sollevato dubbi sulla causa dell'esplosione, indicando invece un razzo lanciato dall'interno di Gaza. Tutto ciò è stato accompagnato da un racconto giornalistico in continua evoluzione in cui la ricostruzione dei fatti è parsa parecchio discutibile. Da questo quadro così complesso e pieno di insidie, emerge quindi che la precisione è una virtù, una necessità e a volte una vera sfida.



Come comunicano i CEO durante una crisi geopolitica


L’azione giusta sarebbe sicuramente comunicare qualcosa: il problema è, però, cosa dire. Molti comunicatori d’impresa, scrive Axios, sono rimasti letteralmente senza parole dopo gli attacchi terroristici sferrati da Hamas in Israele. Se, infatti, diverse aziende hanno inviato messaggi interni focalizzati sul supporto dei dipendenti in Medio Oriente e alcune realtà come Pfizer, Oracle, HPE, Volkswagen e diverse squadre sportive, oltre alla Camera di Commercio USA e a Business Roundtable, hanno espresso sostegno a Israele o proposto delle call to action, c’è chi ha giudicato le prese di posizione dei CEO complessivamente insufficienti, come la Anti-Defamation League (ADL). Dire qualcosa, però, dato il contesto estremamente sfumato del conflitto israelo-palestinese, non è affatto semplice, e alcune aziende hanno valutato di non esporsi senza accompagnare le proprie dichiarazioni con iniziative come donazioni e programmi coordinati di sostegno. Ci sono, però, dei punti fermi per i comunicatori in questa situazione, come suggerisce l’esperto di crisis communication Matt Wing: meglio privilegiare la comunicazione interna rispetto a quella esterna, a meno che non ci sia qualcosa di davvero rilevante da dire o il conflitto non impatti direttamente sull’azienda. Aggiunge Brittany Pamell Punaro, ex direttrice dei Public Affairs della CIA, che è fondamentale per i comunicatori tenere sempre a mente le possibili conseguenze di ogni dichiarazione e capire come la geopolitica può influenzare il business. Infine, sottolinea Lauren Tomlison, co-founder di Steer PR, rispondere lentamente o non rispondere può essere un demerito. In un mondo dalle forti tensioni geopolitiche, insomma, è fondamentale comunicare chiaramente, in maniera ponderata e preparata, contemplando sempre azioni che accompagnino le parole.



Le bombe rompono le barriere di protezione dei social


Immagini crude, video che ritraggono vittime sia palestinesi che israeliane. L’orrore della guerra in Medio Oriente sbarca sui social network e lo fa rompendo ogni possibile logica di controllo che impedisca ai più giovani, bambini e fasce d’età più piccole, di poter essere colpiti anche solo visivamente dalla brutalità che il conflitto tra Hamas e Israele sta avendo sui civili. In un recente rapporto, come spiega il New York Times, si è documentato quanto sia facile per i bambini accedere a immagini della guerra su piattaforme come Instagram, Snapchat e TikTok, anche quando sono attivate le funzionalità di sensibilità e protezione delle app. Il gruppo di ricerca “Institute for Strategic Dialogue” che studia le piattaforme online, ha creato account su Instagram, TikTok e Snapchat fingendo di essere ragazzi britannici di 13 anni. Nel periodo di 48 ore dal 14 al 16 ottobre, i ricercatori hanno trovato oltre 300 post con contenuti sensibili. Più del 78% di questi post erano su Instagram e circa il 5% su Snapchat. Ciò che sorprende è che i ricercatori avevano attivato, prima di eseguire le ricerche, la funzionalità di “Controllo contenuti sensibili” di Instagram e la modalità “Riservato” di TikTok, che dovrebbero proteggere i giovani utenti da contenuti potenzialmente pericolosi. I social rappresentano oggi più che mai uno strumento di comunicazione e informazione imprescindibile. C’è da chiedersi però quanto sia giusto affidare certi messaggi a piattaforme la cui viralità va oltre il limite dell’immaginabile e necessiti di controllo sulle fasce d’età più giovani: se da una parte bisogna coglierne benefici, non si può non ritenere opportuno e urgente studiare approfonditamente i modi in cui i social media condizionino le interazioni tra le persone e i comportamenti collettivi (vedi Editoriale 43).



Il conflitto divide anche l'industria dello spettacolo


Anche l'industria dello spettacolo è coinvolta nei dibattiti sulla guerra Hamas-Israele: come riporta il Wall Street Journal, il conflitto sta seminando divisioni tra gli autori cinematografici che per mesi sono stati uniti nel chiedere nuove tutele contrattuali agli Studios e nel celebrare concessioni faticosamente ottenute (vedi Editoriale 140). Il comico Dave Chappelle ha litigato con un fan durante uno spettacolo dopo aver criticato gli attacchi del governo israeliano a Gaza, mentre Maha Dakhil, agente della Creative Artists Agency, si è dimessa dal consiglio di amministrazione dell'agenzia e ha lasciato il ruolo di co-responsabile dell'unità cinematografica dopo aver pubblicato sul suo account Instagram materiale critico nei confronti della risposta di Israele agli attacchi del 7 ottobre. Dall’altro lato, i membri del sindacato degli autori criticano i leader per il loro silenzio e ci sono forti dibattiti sull'antisemitismo tra dirigenti e star di Hollywood: Per citare un esempio, la Writers Guild of America è al centro delle critiche per non aver rilasciato una dichiarazione di condanna degli attacchi. Sembra quindi che anche la posizione dell’industria dell’intrattenimento nei confronti della guerra in corso abbia un impatto rilevante sulla società.



Nuove tecniche di comunicazione per un vecchio candidato


In quasi tre anni di presidenza, Biden si è distinto dai governi precedenti anche per la volontà di rinnovare le attività di comunicazione. Come raccontato dal Washington Post, infatti, Biden ha maggiormente puntato su mezzi e format di comunicazione diversi da quelli più tradizionali: nei suoi primi due anni e mezzo da presidente, Biden ha tenuto meno conferenze stampa (vedi Editoriale 127) rispetto ai suoi predecessori e ha rilasciato meno interviste alle principali testate giornalistiche, nonostante la sua promessa di ripristinare i tradizionali rapporti con la stampa dopo l’era di Donald Trump, favorendo piuttosto campagne pubblicitarie, ingaggio di influencer e altre figure di spicco non tradizionali per poter diffondere il suo messaggio. Secondo il team della comunicazione di Biden, attraverso questi metodi e nuovi format stanno rispondendo a un'evoluzione nel panorama dei media, in modo da raggiungere e coinvolgere il pubblico ed elettorato più giovane (fondamentale per la sua rielezione), meno informato e consapevole della storia politica di Joe Biden. Attraverso la partecipazione a podcast, newsletter, tiktok e il coinvolgimento di testimonial famosi, Biden dunque può veicolare i propri messaggi e condurre le discussioni con maggiore facilità ed efficacia evitando, anche a detta dei critici, di dover rispondere così a domande imprevedibili e scomode da parte dei giornalisti tradizionali. Per poter presidiare in modo costante ed efficiente i media, secondo un approfondimento offerto dal Washington Post, il team di Biden ha inoltre previsto un aumento delle campagne pubblicitarie del Presidente, affinché possa raggiungere gli elettori desiderati in un ambiente mediatico più frammentato che mai. Secondo i recenti dati, solo quest’anno l’investimento pubblicitario dell’inquilino della Casa Bianca ha raggiunto 25 milioni di dollari, che potrebbero poi avvicinarsi in base alle stime ai 2 miliardi di dollari entro la fine del prossimo anno. Nonostante questi investimenti però, i sondaggi continuano a non convincere il Presidente che ha mostrato frustrazione per i risultati fin qui raggiunti. Lo sforzo economico per la sua rielezione è stato maggiore rispetto a quello di Trump o Obama durante lo stesso periodo delle loro campagne. In un contesto mediatico in costante evoluzione, basterà puntare tutto sulla pubblicità e i mezzi di comunicazione innovativi arrivando in alcuni casi a trascurare il giornalismo tradizionale?



Uno storytelling per cambiare


Il 70% delle iniziative volte al cambiamento in azienda falliscono, nonostante il tempo impiegato dai manager per creare strategie e spiegarle alle proprie organizzazioni. Nell’ultimo numero di Harvard Business Review si parla di una leva più efficace per guidare il cambiamento: il potere di raccontare una storia avvincente. “La nostra specie pensa con metafore e impara attraverso le storie” ha scritto l’antropologa Mary Catherine Bateson. Come spiega la rivista americana, sono quattro i passaggi chiave per una buona narrazione: comprendere la tua storia così bene da poterla descrivere in termini semplici, glorificare il passato, descrivere i passi per il cambiamento e delineare un percorso rigoroso e ottimista per il futuro. La storia dell’azienda dovrebbe essere affrontata con ottimismo e onestà, occorre affrontare gli errori ammettendo di averli commessi. Dopodiché, bisogna offrire delle soluzioni chiare e convincenti per rimediare e migliorare, tutto ciò, avendo chiari gli obiettivi da perseguire. Secondo le autrici dell’articolo, è essenziale uno spirito positivo perché, come riporta una ricerca Gallup, solo il 15% dei dipendenti statunitensi è d’accordo sul fatto che la leadership della propria organizzazione li renda entusiasti delle prospettive future. Compiuti tutti questi passaggi, il leader dovrebbe predisporre la strategia da adottare, passaggio che non può prescindere da un lavoro in team. A quel punto, lo storytelling è pronto e deve essere ripetuto in ogni occasione, dalle riunioni alle interviste agli incontri individuali. Il leader deve comunicare spesso, raddoppiando o triplicando i messaggi strategici. Un’ultima accortezza da adottare in una narrazione è l’attenzione alle emozioni perché ognuna di esse è contagiosa. L’autoconsapevolezza rimane la chiave per strutturare uno storytelling che sia autentico e che infonda fiducia perché la storia getta le basi per il cambiamento e solo quando la si condivide diventa realtà.



E adesso arriva Tucker


Si chiamerà Last Country la nuova media company di Tucker Carlson, ex star di Fox News licenziato a seguito della causa intentata da Dominion (vedi Editoriale 118). E, come riporta il Wall Street Journal, avrebbe già raccolto 15 milioni di dollari da un fondo gestito da Omeed Malik, un investitore che fino a qualche anno fa si autodefiniva un “runof- the-mill corporate Democrat”. Oggi Malik investe in società “anti-Esg” e “anti-woke”, convinto che le iniziative imprenditoriali di destra non abbiano ancora ottenuto i risultati sperati. Quello di Malik non è l’unico affare della nuova creatura di Carlson: l’ex conduttore televisivo ha già firmato un accordo pubblicitario di 1 milione di dollari con PublicSq, un marketplace online per aziende che condividono valori conservatori. In questa nuova iniziativa, Carlson è affiancato dall’ex consigliere della Casa Bianca (nonché suo compagno di stanza al Trinity College di Hartford, nel Connecticut), Neil Patel. I due, nel 2010, hanno fondato il Daily Caller, un sito di notizie di stampo conservatore. Per quanto riguarda i contenuti, Last Country si baserà su versioni più lunghe, e a pagamento, dei video che Carlson pubblica regolarmente su X, e vedrebbero protagonisti anche altri conduttori.

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