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Editoriale 126

La comunicazione sui media
10 - 16 aprile

18 aprile 2023

Il vincitore digitale. Putin l’Africano. Margini di miglioramento. Immagini surreali che diventano realtà. O Twitter o niente. Il solito Döpfner. La BBC sotto indagine in India. Da dove deriva il traffico online.

La Redazione


Il vincitore digitale


La Russia sta vincendo la guerra della disinformazione. È quanto emerge da uno dei documenti del Pentagono trapelati su Discord ed esaminato dal Washington Post. Nello specifico, si tratta di uno studio preparato dal Joint Chiefs of Staff, U.S. Cyber Command and Europe Command (l'organizzazione che dirige le attività militari americane in Europa) sul principale centro di elaborazione della ricerca scientifica russo, meglio conosciuto come GlavNIVT. Secondo lo studio, il Cremlino avrebbe potenziato la sua macchina della disinformazione, Fabrika, capace di far circolare in rete fake news sempre più difficili da riconoscere: solo l’1% dei contenuti fake viene smascherato. Fabrika agisce sia in maniera passiva, promuovendo sui social i post graditi a Mosca, sia in maniera attiva inviando messaggi agli “utenti bersaglio” delle operazioni di influenza. Parallelamente, sono state individuate sei campagne di influenza, già in corso o pianificate per quest'anno, da una nuova organizzazione russa chiamata Center for Special Operations in Cyberspace. Campagne che prendono di mira il governo americano - sulla “verità nascosta” degli effetti collaterali del vaccino-, i Paesi limitrofi alleati con l’Ucraina (Polonia, Lettonia e Lituania) - sulla volontà di espellere i profughi ucraini-, gli 007 di Kiev e la Nato. L’ultima operazione punterebbe a svelare identità dei “guerrieri dell'informazione” ucraini, ossia quelle persone che provano a sminuire gli effetti una propaganda sempre più pervasiva.



Putin l’Africano


Come riportato dal New York Times, i contenuti filorussi che presentano una versione distorta della guerra in Ucraina e promuovono gli interessi della Russia stanno conquistando sempre più pubblico nel continente africano. In Sud Africa, un influencer ha aggiunto “Vladimir” al suo nome su Twitter per mostrare la sua ammirazione verso il presidente russo e trasmette contenuti filorussi su Twitter e Telegram a un pubblico in crescita che ora conta 148.000 follower. Su Afrique Média, un canale televisivo con sede in Camerun che raggiunge milioni di persone in Africa e che ha recentemente firmato una partnership con RT, la rete televisiva russa finanziata dallo stato, gli esperti elogiano regolarmente l'invasione russa dell'Ucraina.  Nell'ultimo anno, sempre più contenuti filorussi sono emersi sui notiziari e sulle piattaforme social in Africa con messaggi che mirano a raccogliere sostegno per l'invasione dell'Ucraina e a inquadrare la crescente presenza della Russia nel continente africano come benefica, denigrando al contempo il coinvolgimento americano ed europeo, in particolare francese, in Africa (vedi Editoriale 117). Inoltre, tra i documenti dell'intelligence statunitense trapelati di recente, c'è un rapporto che afferma che l'agenzia di intelligence militare russa a febbraio avrebbe pianificato una campagna di propaganda utilizzando i media africani per “riallineare” l'opinione pubblica con la Russia. Allo stesso tempo, la portata dei notiziari occidentali è diminuita in alcune parti del continente. La BBC sta tagliando dozzine di giornalisti in Africa e chiudendo almeno tre canali che trasmettono nelle lingue africane locali all’interno di un più ampio piano di ridimensionamento. Ci sono anche prove di aziende cinesi che aiutano a diffondere contenuti russi in Africa. StarTimes, un fornitore di media e televisione satellitare con sede a Pechino, ha continuato a rendere RT disponibile ai clienti anche se altre società hanno abbandonato il canale dopo la guerra. La Russia, sempre più isolata, ora sta tentando di trascinare più paesi africani possibili nella sua orbita attraverso campagne mediatiche molto pervasive.



Margini di miglioramento


Un articolo de The New York Times affronta il tema del contrasto alla diffusione di fake news durante le elezioni americane. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour, evidenzia il successo degli sforzi adottati nel 2020, tra cui etichettare i contenuti ed educare le persone ai media, per combattere la disinformazione che era stata protagonista nelle elezioni del 2016. “Sono ottimista sul fatto che la maggioranza della popolazione sia sempre più resiliente alla disinformazione sul web”, ha dichiarato Jeff Hancock, direttore e fondatore dello Stanford Social Media Lab e autore principale del rapporto. “Stiamo diventando sempre più bravi a distinguere le informazioni cattive e dannose da quelle affidabili o di intrattenimento”. Tuttavia, secondo i ricercatori, quasi 68 milioni di persone negli Stati Uniti hanno consultato siti web non attendibili 1,5 miliardi di volte in un mese nel 2020. Con l'avvicinarsi delle elezioni del 2024, i ricercatori temono che la disinformazione si evolva assumendo forme sempre più difficili da individuare. I contenuti più pericolosi si sono spostati su app di messaggistica criptate, come Telegram o WhatsApp, e l’avvento dell'intelligenza artificiale ha sollevato l'allarme per le immagini ingannevoli. In vista delle prossime elezioni, i ricercatori hanno dichiarato di essere preoccupati per i soggetti maggiormente vulnerabili alla disinformazione, come gli anziani, i conservatori e coloro che non parlano inglese. Secondo il rapporto di Stanford, più del 37% delle persone di età superiore ai 65 anni ha visitato siti di disinformazione nel 2020, una percentuale molto più alta rispetto ai più giovani, ma in miglioramento rispetto al 56% del 2016. Hancock ha affermato che la disinformazione deve essere presa sul serio, ma allo stesso tempo non enfatizzata. Lo studio di Stanford ha dimostrato che le notizie fruite dalla maggior parte degli americani non sono “fake”. Trattare le teorie cospirative e le false narrazioni come una minaccia sempre presente e di vasta portata potrebbe intaccare la fiducia del pubblico nelle fonti di notizie attendibili.



Immagini surreali che diventano realtà


I generatori di immagini che utilizzano l’intelligenza artificiale come DALL-E e Midjourney sono sempre più popolari e facili da usare. Gli esempi recenti lo dimostrano: dalla foto dell’arresto di Donald Trump a quella di Papa Francesco che indossa un appariscente piumino bianco. Il Reuters Institute dell’Università di Oxford ha interpellato giornalisti, esperti e fact-checker per porre importanti quesiti sul tema: quali sono le implicazioni dell’intelligenza artificiale sulla disinformazione? In che modo influirà sui giornalisti e sui fact-checker? I nostri canali di informazione saranno inondati di propaganda e falsità? Marilín Gonzalo, che scrive una rubrica sulla tecnologia per Newtral, sostiene che la disinformazione visiva è particolarmente problematica poiché le immagini possono avere un forte impatto emotivo sulle percezioni del pubblico. Nonostante le preoccupazioni che questi contenuti possano portare a una crisi della verità, esperti come Felix Simon, ricercatore di comunicazione e dottorando presso l'Oxford Internet Institute, consigliano di non essere allarmisti. Secondo Simon, le persone svilupperanno meccanismi di difesa sia a livello personale che a livello istituzionale e le testate giornalistiche probabilmente faranno di tutto per controllare le immagini. Un ulteriore aspetto del problema riguarda la velocità con cui i software di intelligenza artificiale possono produrre contenuti multimediali. Dunque, le testate non dovranno solo verificare correttamente le informazioni, ma farlo in modo tempestivo per evitare un vuoto informativo. Ciò solleva anche la questione di quali responsabilità abbiano le startup basate sull’intelligenza artificiale nel distinguere i loro contenuti da immagini e video reali. Gli studiosi sostengono in modo unanime che sia necessaria una maggiore trasparenza. Infine, una riflessione a parte meritano le questioni etiche, ad esempio l’utilizzo dei dati su cui l’IA sta lavorando: tutti i casi diventati virali riguardavano infatti persone reali. Al momento, gli esperti prevedono che sarà possibile ridurre l'impatto della disinformazione basata sull'intelligenza artificiale promuovendo l'alfabetizzazione mediatica ed educando i cittadini alle tecniche di verifica personale dei fatti.



O Twitter o niente


Come riporta The Guardian, le acrobazie di Musk su Twitter e tramite Twitter (vedi Editoriale 125) sono state analizzate e riportate – anche in modo particolarmente critico – per settimane dai media mainstream in tutto il mondo. Anche se rispetto agli altri social media Twitter sembrava un pesce piccolo, esiste una categoria d’élite di utenti che utilizzano la piattaforma dell’uccellino blu in modo ossessivo: politici, persone che lavorano nel campo della pubblicità, delle pubbliche relazioni, della comunicazione e soprattutto giornalisti. Si tratta di utenti che trascorrono molto tempo su questo social e lo usano per diffondere informazioni, discutere, trollare, vantarsi e impegnarsi in un'incessante attività di “virtue-signalling”. Dato che molte di queste persone lavorano nei media, la loro ossessione per Twitter significa che è diventato, di fatto, una parte significativa della sfera pubblica.  Chi ha capito meglio questo aspetto è stato Donald Trump, che ne è stato diventato un maestro. Ha fatto campagna elettorale su Twitter e alla fine ha persino governato a colpi di tweet, al punto che era stato creato un bot che riformattava automaticamente ogni tweet di Trump in un comunicato stampa “ufficiale” della Casa Bianca. L’acquisito della piattaforma da parte del miliardario proprietario di Tesla e SpaceX ha causato la fuga di inserzionisti e utenti verso altre piattaforme come ad esempio Mastodon che, pur essendo apparentemente simile a Twitter, è in realtà molto diverso. Nessuna delle alternative disponibili sembra un sostituto convincente. Tutto ciò suggerisce che, a meno che Musk non demolisca effettivamente il suo nuovo giocattolo, i media mainstream continueranno ad usarlo. Anche se, secondo una survey riportata da Press Gazette, la metà dei giornalisti presenti su Twitter sta valutando la possibilità di abbandonarlo.



Il solito Döpfner


Mathias Döpfner, l'amministratore delegato di Axel Springer (il più grande gruppo editoriale d'Europa), ha cercato di utilizzare il suo tabloid di punta, Bild, per influenzare l'esito delle ultime elezioni tedesche. Come racconta The Guardian, Döpfner avrebbe raccomandato di “fare di più per rafforzare la Fdp”, il partito liberale il cui leader e attuale ministro delle Finanze, Christian Lindner, è molto legato al capo di Springer. Non solo. Il CEO avrebbe condiviso, stando alle chat interne pubblicate mercoledì dal settimanale tedesco Die Zeit, opinioni personali contro l'attivismo a tutela del cambiamento climatico, le misure a contenimento del Covid e l'ex cancelliere Angela Merkel. Da ricordare che non si tratta del primo caso di cronaca che vede coinvolto Döpfner: anni fa prese le difese (fino a un’inchiesta del New York Times) di Julian Reichelt, Direttore di Bild, accusato di molestie nei confronti di alcune redattrici del giornale, alle quali prometteva promozioni di carriera in cambio di favori sessuali. Lo scorso settembre, inoltre, Döpfner ha dichiarato al Washington Post che attraverso l'acquisizione di Politico voleva “dimostrare che essere apartitico è in realtà il posizionamento di maggior successo”, descrivendo tale mossa come la sua “scommessa più grande e contraria”. Come in precedenti occasioni, il CEO di Spinger si è difeso sostenendo che si trattasse di battute tipiche da conversazioni private: “Mi considero responsabile di ogni parola pubblicata, ma frammenti presi fuori contesto e pezzi di conversazioni non possono essere ricondotti al mio vero pensiero”.



La BBC sotto indagine in India


“Propaganda coloniale che danneggia la sovranità e l’integrità dell’India” diffusa dalla “più corrotta organizzazione”. Queste le parole con cui il governo indiano e il portavoce del Partito Popolare Indiano hanno definito, rispettivamente, il documentario “India: The Modi Question” e la BBC che l’ha mandato in onda. Non in India, ma questo non ha impedito, riporta il Guardian, l’apertura di un’indagine sull’emittente britannica da parte dell’agenzia indiana per i crimini finanziari, con il coinvolgimento diretto dell’Enforcement Directorate (ED), un’agenzia legata al governo centrale. Un particolare, quest’ultimo, di un film già visto con altre realtà come Amnesty International and Greenpeace: giudicate anche loro critiche verso Modi, hanno visto i loro conti congelati e le loro operazioni nel Paese sospese. Il governo indiano attuale non è di certo nuovo alla censura(vedi Editoriale 90 ed Editoriale 33), e la manovra di repressione ha visto coinvolti anche diversi studenti che hanno cercato di conservare spezzoni del documentario proibito, venendo arrestati o accusati di tradimento. Per ora l’emittente e il Governo britannici hanno scelto di mantenere un profilo basso: l’indagine ha preso il via a febbraio con la maschera di un’operazione di routine non legata all’uscita del documentario, e se la BBC non ha ancora risposto alle richieste di commenti da parte del Guardian dal Governo è arrivato soltanto la dichiarazione, da parte del ministro degli Esteri James Cleverly, di una discussione privata sulla questione con la sua controparte indiana durante un incontro del G20 a Dehli. Un riserbo che dice molto della delicatezza della vicenda.



Da dove deriva il traffico online


Negli ultimi cinque anni si è registrato un aumento deltraffico sui motori di ricerca e una diminuzione nei social media, come rivela un’analisi di Press Gazette sui dati di Chartbeat. Per arrivare a questo risultato sono stati esaminati - dal 2018 a oggi - i dati di 546 siti del Regno Unito e degli Stati Uniti con l’intento di scoprire quali sono le fonti di traffico in crescita per gli editori e quali quelle in calo. Dall’analisi è emerso come la quota di pagine viste tramite ricerca da browser sia aumentata leggermente, passando dal 33% nel primo anno di ricerca (che copre i dodici mesi a partire da aprile 2018) al 35% fino a marzo 2023. Nello stesso periodo, il numero di pagine visitate tramite i social media è diminuito leggermente: dal 32% si è passati al 30%. Nonostante gli utenti atterrino meno dai social sulle pagine delle testate prese in analisi, la ricerca ha mostrato come Facebook continui ad avere in questo senso una quota di traffico molto più alta rispetto alle altre piattaforme. In tale contesto cosa possono fare gli editori per diversificare il traffico? Jill Nicholson, responsabile marketing di Chartbeat, consiglia loro di diversificare le proprie fonti di traffico pensando a ciò che vorrebbero ottenere da ciascuna piattaforma, facendo attenzione a non buttarsi a capofitto su nuove realtà senza prima sperimentare.

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