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Editoriale 124

La comunicazione sui media
27 - 02 aprile

4 aprile 2023

Show must go on. Bibi e il valzer dei media. Il Cremlino parla spagnolo. Un divieto chiama l’altro. Il mercato regola anche l’imparzialità. Lobby ESG. Il Burkina Faso censura la cronaca. Spettacolo mediatico in UK.

La Redazione


Show must go on


Con l'incriminazione di Trump, gli americani – pronti o no – dovranno salire nuovamente sulle montagne russe con un protagonista la cui presenza nell'universo dei media aveva cominciato a svanire. Come riportato dal New York Times, dopo essere stato bandito da Twitter gli sfoghi e le lamentele del tycoon avevano smesso di dominare il ciclo delle notizie. È persino scomparso da Fox News, la sua casa televisiva, per circa quattro mesi a partire da novembre, dove è riapparso la scorsa settimana nel programma “Hannity” inveendo contro i media delle “fake news”. Inoltre, i suoi post su Truth Social – di solito ignorati nella copertura politica quotidiana – stanno circolando ampiamente sulla stampa, monopolizzando il panorama mediatico e rubando le prime pagine anche ai politici “attuali”. L’effetto Trump è supportato da dati oggettivi: il numero di persone che guarda le news è diminuito dopo che Trump ha lasciato l'incarico e la notizia delle sue accuse penali ha ribaltato la situazione. In prima serata, Fox News ha registrato una media di 3,3 milioni di spettatori, un aumento del 34% rispetto al suo pubblico abituale. La CNN ha avuto 1,2 milioni di spettatori, il doppio della media dall'inizio dell'anno. MSNBC ha avuto 2,5 milioni di spettatori, con un aumento del 78%. Martin Kaplan, che dirige il Norman Lear Center for Media and Society presso la University of Southern California, ha evocato il termine hollywoodiano “tent pole show” per descrivere l'eccesso di programmazione di Trump. “Sostiene il modello di business dei media”, ha dichiarato Kaplan in un'intervista. “Non importa quanto siamo stufi di Trump, non possiamo distogliere lo sguardo da lui. Soprattutto quando sembra che l'auto del clown possa schiantarsi”.



Bibi e il valzer dei media


“Ho bisogno dei miei media”. Basterebbe questa frase per capire il rapporto di Benjamin Netanyahu con il mondo della stampa. Non a caso nel 2007, Sheldon Adelson, magnate americano dei casinò e da tempo benefattore di Netanyahu, ha fondato Israel Hayom, un tabloid gratuito, che è diventato la voce del primo ministro israeliano. Come spiega il Columbia Journalism Review, per capire il rapporto di Netanyahu con la stampa bisogna risalire al 2019 quando è stato incriminato per abuso d’ufficio, corruzione e frode, in casi direttamente collegati ai mediacome dimostrano le interferenze con Walla News e la proposta di accordo all'editore di Yediot Ahronot per limitare la diffusione di Israel Hayom, il suo principale concorrente, in cambio di una copertura favorevole e di aiuto per la sua elezione. Il governo di Netanyahu ha recentemente annunciato un piano di revisione del sistema giudiziario che ridurrebbe drasticamente la separazione dei poteri e gli conferirebbe maggiore autorità, permettendogli di controllare gli stessi giudici che presiedono il processo in cui è stato accusato di corruzione. Saltano alla mente parallelismi con figure autoritarie come quella di Putin o di Trump, in grado attraverso la propria propaganda di influenzare il mondo dell’informazione: nel primo caso il Cremlino ha bloccato l’accesso all’informazione digitale, affidandosi a tv e radio per diffondere il proprio pensiero e ha investito in modo massiccio anche sull’intelligenza artificiale per generare confusione in rete, disinformando sui reali effetti della guerra in Ucraina (vedi Editoriale 79); dall’altro lato Trump fa leva su influencer e personaggi del web come Alex Bruesewitz, Jack Posobiec, John Cardillo e Steve Bannon per influenzare l’opinione pubblica e i media (vedi Editoriale 122). Netanyahu stesso ha continuato a tentare di controllare i media e ha introdotto una legge per bloccare la pubblicazione di registrazioni che possano minare la sua credibilità. Le autorità israeliane hanno infatti vietato l'emittente radiofonica Voice of Palestine e il nuovo ministro delle comunicazioni ha annunciato l'intenzione di chiudere la Public Broadcasting Corporation israeliana per sostituirla con un nuovo organo di controllo.



Il Cremlino parla spagnolo


Mentre in Occidente i media finanziati dal governo russo sono bloccati, gli stessi canali operano con successo in America Latina, affiancando a una comunicazione più tradizionale il ricorso a social media e influencer. Lo riporta il Reuters Institute, raccontando il consolidamento di questi strumenti di propaganda in un’area vicina geograficamente agli Stati Uniti e dove il panorama mediatico è piuttosto delicato, anche a causa di Google (vedi Editoriale 118). Qui realtà come RT (ex Russia Today) en Español sono seguite da milioni di persone, e si sono ritagliate uno spazio sfruttando la mancanza di media non occidentali nella regione, il suo sentimento antiamericano e l’ignoranza rispetto a come si vive oggi in Russia. Completano il quadro strategie come troll e bot farms e influencer dal seguito nutrito che condividono una narrativa pro-Russia. Ma è possibile limitare la diffusione della propaganda russa? Il blocco di canali di informazione come RT e Sputnik non sembra essere l’opzione più indicata, perché non farebbe altro che rafforzarli; si potrebbe infatti obiettare che questi canali vengano chiusi dagli “imperialisti” per il solo fatto di dire la verità. In più, i modi per aggirare blocchi di questo tipo non mancano. Ciò che si suggerisce, piuttosto, è di costruire una risposta alla propaganda basata su educazione, consapevolezza e proposta di più voci e punti di vista, mettendo in evidenza perché i media di stato russi agiscono in un certo modo. Si potrebbe, forse, osare fare un passo in più, proponendo una media education di respiro più ampio come in Finlandia (Editoriale 113), che con la Russia confina.



Un divieto chiama l’altro


Potrebbe essere in arrivo un nuovo protagonista nello scontro che vede coinvolti il Congresso e ByteDance. Si chiama Lemon8, una app che la scorsa settimana è entrata nella top 10 dell’App Store in America. È una “lifestyle community”, le cui funzioni richiamano in parte Pinterest e Instagram, che ha attirato l’attenzione dei media e dei creator. A detta di molti esperti, tuttavia, questo entusiasmo potrebbe svanire presto: il vero test arriverà una volta che Lemon8 smetterà di pagare i creator coinvolti nella campagna di lancio e farà affidamento sul traffico organico. Anche se questo test dovesse andare bene, il nuovo social media dovrà fare i conti con il governo americano: così come TikTok, anche Lemon8 è di proprietà di ByteDance. Il possibile divieto di TikTok negli USA potrebbe avere un impatto molto più ampio di quello che comunemente si crede (vedi Editoriale 123), con un possibile coinvolgimento anche della nuova app cinese. Come sostiene Taylor Lorenz sul Washington Post, vietare singole app potrebbe non essere sufficiente nel momento in cui sempre più piattaforme di proprietà straniera cercano di conquistare il mercato statunitense.



Il mercato regola anche l’imparzialità


Non sarebbero le esigenze delle nuove generazioni a ridurre l’oggettività del giornalismo quanto le regole imposte dal mercato. Martin Baron, ex direttore esecutivo del Washington Post, ha recentemente definito ciò che per lui rappresenta l’obiettività, ossia, un impegno a riferire che sia “coscienzioso e attento”, basato sull'evidenza, di mentalità aperta e che cerchi di correggere le “supposizioni, i pregiudizi, le opinioni preesistenti e le conoscenze limitate”. Si tratta di una ricerca ostinata e disinteressata della verità, anche quando quella verità è scomoda ai lettori o al politico di turno. Ultimamente i giornalisti, secondo Baron, preferiscono seguire mode ideologiche; ma Eric Levitz, sulle pagine di Intelligencer - New York Magazine, sostiene che Baron non prenderebbe in considerazione il ruolo che nel corso della storia ha giocato il mercato editoriale, per sua natura contrario alla ricerca dell’oggettività. Già tra il ‘700 e ‘800 i giornali in America erano finanziati dai partiti politici e i giornalisti non erano imparziali. Con la crisi economica del ‘900, poi, i giornali dovevano affidarsi alle sovvenzioni degli inserzionisti pubblicitari che volevano raggiungere il pubblico più ampio possibile, a prescindere dall’appartenenza politica. Negli anni ‘60 è quindi stata applicata la teoria dell’oggettività di Walter Lippmann secondo cui l’indagine sui fatti avrebbe dovuto essere “imparziale per quanto umanamente possibile”. Ciò in effetti è avvenuto ma non per offrire un’informazione accurata, bensì per non offendere alcuna fazione politica. Lo stesso meccanismo di assecondamento delle logiche del mercato avviene tuttora, secondo Baron, nelle pubblicazioni online e social in cui il giornalista predilige la “chiarezza morale” all’obiettività assecondando le idee preconcette dei propri lettori e imponendo, quindi, una visione distorta della realtà. Negli ultimi vent’anni le entrate pubblicitarie delle testate americane sono passate da 49 miliardi a 10 miliardi ma, contestualmente alla diminuzione dei finanziamenti, l’attenzione del lettore medio è calata drasticamente, facendogli preferire la visione di video brevi e dall’opinione chiara e polarizzata alla lettura di articoli approfonditi. I lettori sono spinti a chiedere conferme ideologiche e i media, per allargare il loro bacino di utenti, preferiscono la raccolta delle opinioni (polarizzate) alla raccolta dei fatti (oggettivi). Secondo Levitz ciò che aiuterebbe a sostenere un giornalismo obiettivo come lo intende Baron sarebbe un maggiore finanziamento pubblico al sistema editoriale così da permettere ai giornalisti di compiere un lavoro serio e accurato, lontano dalle logiche di mercato. Ciò spingerebbe, con il tempo, anche i lettori ad interessarsi ed apprezzare questo tipo di contenuto.



Lobby ESG


L'amministrazione Biden si prepara a rilasciare la versione finale delle norme che impongono alle società quotate in borsa di divulgare le proprie emissioni di carbonio e altre informazioni sul clima e, parallelamente, le lobby di entrambi gli schieramenti politici statunitensi si preparano a citare in giudizio l’amministrazione Biden. Come riporta Semafor, da quando sono state proposte lo scorso marzo, le norme della Securities and Exchange Commission (SEC) hanno raccolto oltre 14.000 commenti, con un'aggressiva attività di lobbying su alcuni dettagli chiave. I gruppi ambientalisti, i democratici eletti al Congresso e altri sostenitori affermano che le norme sono necessarie per dare agli investitori visibilità dei rischi finanziari delle aziende legati al clima e per responsabilizzare le imprese rispetto ai loro obiettivi climatici. Gli oppositori, tra cui la Camera di Commercio degli Stati Uniti e molti repubblicani, sostengono invece che le norme sono un eccesso di autorità da parte della SEC e richiedono dati che le aziende non possono ottenere in modo accurato o convincente. Secondo gli osservatori, la versione finale del regolamento è attesa per le prossime settimane, dopo di che diventerà sicuramente il campo di battaglia più caldo nella guerra sugli investimenti ESG. Il dibattito sulle norme della SEC in materia di comunicazione sul clima affonda le sue radici nell'ansia che molte aziende ad alta intensità di carbonio provano per il fatto che le emissioni di CO2 - un tempo una metrica vaga che poteva al massimo essere stimata in modo approssimativo - stanno diventando molto più facili da misurare, e una base per azioni legali e campagne degli azionisti. La parte più controversa della proposta della SEC riguarda le emissioni “Scope 3”, quelle che derivano dalla catena di approvvigionamento di un'azienda e dall'uso dei suoi prodotti da parte dei clienti, e che per molte aziende costituiscono la maggior parte dell'impronta di carbonio totale. La norma proposta richiede la divulgazione delle emissioni in questo ambito se sono rilevanti per le finanze di un'azienda o se sono incluse negli obiettivi climatici dell'azienda. Se la SEC elimina il requisito dello Scope 3, come richiesto dall'American Petroleum Institute - il principale gruppo di pressione americano sui combustibili fossili - e da altri, probabilmente dovrà affrontare cause legali da parte di gruppi di difesa dell'ambiente e degli azionisti. Ma se non lo farà, potrebbe dover affrontare cause legali da parte di procuratori generali repubblicani e della Camera. Un approccio intermedio sarebbe quello di introdurre gradualmente tale requisito nel tempo.



Il Burkina Faso censura la cronaca


Il Burkina Faso, dove l'anno scorso si sono verificati due colpi di stato, sta combattendo un'insurrezione jihadista. In questo clima, le autorità hanno convocato due giornaliste - Sophie Douce di Le Monde e Agnès Faivre di Libération - per dare loro ventiquattro ore di tempo per lasciare il Paese. Se Le Monde ha condannato con massima fermezza quella che ha definito una decisione arbitraria, Libération ha protestato vigorosamente contro queste “espulsioni assolutamente ingiustificate”. Così come riporta The Guardian, la scelta del governo di espellere le due croniste è stata dettata dalla pubblicazione di un video che mostrava l'esecuzione di bambini in una caserma militare. Su questo episodio si è espresso Jean-Emmanuel Ouédraogo, portavoce del governo, il quale “strongly condemns these manipulations disguised as journalism to tarnish the image of the country”. Le espulsioni sono l'ultima mossa contro i media dell'ex potenza coloniale francese; qualche giorno fa, difatti, le autorità hanno sospeso tutte le trasmissioni di France 24 dopo che il canale d'informazione aveva mandato in onda un'intervista al capo di Al-Qaeda in Nord Africa, affermando che si trattava di “part of a process of legitimising the terrorist message”. France 24 ha risposto sostenendo che la crisi di sicurezza che sta attraversando il Paese non deve essere un pretesto per imbavagliare i media.



Spettacolo mediatico in UK


Siamo di fronte a uno dei più grandi processi mediatici della storia britannica. Come riporta un articolo de The Guardian, il principe Harry, nella causa legale contro il proprietario del Daily Mail, ha affermato che i giornali dell’Associated Newspapers fingevano di essere un “faro di verità e integrità”, mentre “svolgevano o commissionavano abitualmente attività di raccolta di informazioni illegali o illecite”. Affermazioni definite dall'Associated Newspapers “calunnie assurde”. Nel corso dell'udienza, Harry è stato raggiunto da alcune celebrità, come Elton John. Tutti hanno dichiarato di ritenere di essere vittime di attività illegali svolte per conto del Daily Mail e del Mail on Sunday. Non vi è dubbio che i giornalisti delle testate coinvolte siano seriamente preoccupati, anche se tutto dipenderà dal fatto che l'Associated Newspapers riesca a convincere il giudice che i ricorrenti hanno aspettato troppo a lungo per avviare la causa. Sono, infatti, consentiti fino a sei anni dal momento in cui un individuo è a conoscenza del potenziale reato. A prima vista, la posizione dell'azienda potrebbe sembrare contraddittoria: Associated Newspapers ha insistito sul fatto che al Daily Mail o al Mail on Sunday non si siano verificati comportamenti illegali, ma allo stesso tempo sostiene che Harry e gli altri avrebbero dovuto sospettare l'esistenza di questi comportamenti in una fase precedente. Nelle prossime settimane, il giudice Nicklin emetterà un verdetto sulla possibilità di procedere, aprendo la porta a uno dei processi mediatici più importanti nella storia britannica.

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