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Editoriale 109

La comunicazione sui media
28 - 04 dicembre

6 dicembre 2022

Twitter e giornalismo, un’analisi del Guardian. Porte aperte per gli ex dipendenti di Musk. TikTok è una minaccia per gli americani. Arte&Cultura vs guerra. Supportare le inchieste in Africa. Comunicare la mobilità sostenibile.

La Redazione


Twitter e giornalismo, un’analisi del Guardian


I giornalisti del The Guardian hanno voluto approfondire la relazione tra Twitter e il giornalismo, ripercorrendo le proprie esperienze personali, i cambiamenti e i trionfi della piattaforma. La nascita di Twitter ha rivoluzionato infatti non solo il modo di comunicare ma, di conseguenza, anche quello di fare giornalismo, ampliando l’accesso alle informazioni, notizie e specialmente al dibattito, che in alcuni casi sfocia nell’odio online o nella disinformazione. Jim Waterson, media editor, ha voluto evidenziare la grande accessibilità offerta da Twitter e come questa ha cambiato il mondo del giornalismo e i giornalisti stessi. La piattaforma infatti consente di raggiungere un pubblico sempre più ampio, permettendo a chiunque di creare e imporre una propria storia, punto di vista e informazione, generando reazioni e dibattiti capaci di influenzare il panorama mediatico. Secondo Arwa Mahdawi, editorialista, Twitter è stato lo strumento che ha contribuito alla creazione della sua carriera da giornalista, attraverso le ricche occasioni di condivisione e raccolta di spunti esterni per la creazione di articoli, ma l’attuale deriva disinformativa ed estremista che caratterizza la piattaforma induce ormai ad abbandonarla a causa della mancata mediazione dei contenuti che non consente un sereno scambio di contenuti e opinioni. Anche per Owen Jones Twitter racchiude in sé bellezze e criticità: seppure la piattaforma abbia dato voce a gruppi e comunità emarginate e rimaste inascoltate, ha però permesso a haters ed estremisti di avere il potere di una comunicazione capace in questo caso di far crescere violenza e abuso online e nella realtà. Infine, secondo le esperienze di Emma Graham-Harrison, corrispondente senior per gli affari internazionali, Twitter ha rappresentato una preziosa occasione per aggirare censure e regimi dittatoriali e permettere di entrare a contatto con persone e storie di tutto il mondo. Le testimonianze dei giornalisti raccontano di una piattaforma piena di controversie, fatta di opportunità di condivisione e di violenza, che in ogni modo finisce comunque per influenzare le nostre vite.



Porte aperte per gli ex dipendenti di Musk


Da quando Elon Musk ha dato il via a una serie di licenziamenti (vedi Editoriale 104), decine di persone incaricate di tenere sotto controllo la disinformazione su Twitter hanno annunciato su LinkedIn di essersi dimesse o di aver perso il lavoro. Come riporta il New York Times, sono subito arrivate per loro offerte di lavoro da competitor in cerca di talenti per tracciare e combattere le fake news sul web. La disinformazione è stata ampiamente riconosciuta come un problema significativo nel 2016, con la scoperta di operazioni di influenza russa mirate alle elezioni presidenziali statunitensi, e si è poi intensificata con le teorie complottistiche legate al Covid-19 durante la pandemia. Per questo realtà come Graphika, società di analisi di social media nata nel 2013, hanno progressivamente spostato l’attenzione, inizialmente rivolta all'estrazione di informazioni sul marketing digitale, verso temi quali le campagne di disinformazione e le narrazioni estremiste. Ma il pool di talenti che devono riconoscere i contenuti malevoli è ancora esiguo. Sicuramente le risorse uscenti da Twitter non faticheranno a trovare un altro posto di lavoro.



TikTok è una minaccia per gli americani


Secondo Marc A. Thiessen di The Washington Post le reazioni scaturite dall'acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk sono esagerate. “La fine della censura selvaggia sulla piattaforma di social media non rappresenta una minaccia per la nostra democrazia - afferma -, ciò che minaccia il nostro stile di vita non è il controllo di Twitter da parte di Musk, ma quello di TikTok da parte di Xi Jinping, la popolarissima applicazione di social media che il Partito Comunista Cinese sta utilizzando per raccogliere una enorme quantità di dati su oltre 100 milioni di utenti americani”. Molti americani, tuttavia, non sembrano preoccupati dell'infiltrazione di Pechino nei loro salotti virtuali: perché dovrebbero se la Cina sta solo guardando i video di danza dei loro figli? “Non si tratta solo dei vostri video di danza - dice Klon Kitchen, senior fellow dell'American Enterprise Institute per la tecnologia della sicurezza nazionale ed ex ufficiale della CIA che si occupa di operazioni di influenza estera -, ma di tutti i vostri contatti, la posizione GPS e le abitudini di acquisto online”. Giusto per citare alcune della minacce. Secondo Kitchen, se scarichi TikTok  dai alla Cina la possibilità di tracciare tutto quello fai. Tutti questi dati serviranno alla Cina per accumulare informazioni compromettenti su milioni di americani, che può poi utilizzare per la sicurezza nazionale o per lo spionaggio commerciale. TikTok afferma di non aver mai fornito i dati degli utenti al governo, né lo farebbe se gli venisse richiesto. Ma la legge cinese, che il regime applica extraterritorialmente a tutte le società cinesi, richiede a tali società di mettere a disposizione del Partito tutti i dati che raccolgono o a cui hanno accesso, indipendentemente da dove vengono raccolti, elaborati o archiviati.



Arte&Cultura vs guerra


Il giornalista Simon Schama, in un’ampia riflessione pubblicata sul Financial Times, ha analizzato il potere dell’arte e della cultura in contesti conflittuali, come guerre o proteste. “So che una poesia non può fermare un carro armato, ma è vero anche il contrario”, inizia così l’articolo che ripercorre alcuni degli eventi rivoluzionari più importanti della storia e gli artisti che ne sono diventati il simbolo. In alcune situazioni, la cultura può esercitare una forza più potente di qualsiasi decisione politica perché riesce ad entrare in contatto con le persone, raggiungendo gli istinti umani più semplici e naturali. I regimi autoritari possono scatenare la loro “artiglieria pesante” fatta di terrore, torture, arresti e persecuzioni, ma non sono altrettanto preparati nel combattere la guerra tra bugie e verità: l'indignazione può gonfiarsi, accumularsi e infine esplodere in un'incontenibile disobbedienza di massa. Ne sono un esempio le proteste in Iran a seguito dell'uccisione di Mahsa Amini, o quelle a Urumqi in Cina dopo che una donna è morta tra le fiamme in uno degli edifici chiusi per il Covid. Questi fatti hanno dato vita a rivolte di massa che hanno turbato la brutalità autoritaria dei rispettivi Paesi. Anche l’arte, in questo senso, può cambiare la storia. Nel maggio 2008, un devastante terremoto nella provincia cinese occidentale del Sichuan ha causato la morte di 69.000 persone. L'artista Ai Weiwei ha risposto con l’installazione "Remembering", fatta di 9.000 zaini che commemorano gli scolari uccisi dal terremoto, denunciando così il pessimo stato degli edifici crollati a causa del sisma. David Hockney ha fatto qualcosa di simile negli anni ’60 realizzando una serie di dipinti che sono divenuti veri manifesti della liberazione gay. Oggi più che mai si capisce l’importanza delle sue opere, soprattutto dopo le restrizioni imposte in Qatar in occasione dei Mondiali di calcio. Naturalmente ci sono dei limiti a ciò che l'arte e la cultura possono fare e, inoltre, alcune opere hanno avuto effetti solo dopo molti anni: The Handmaid's Tale di Margaret Atwood, ad esempio, originariamente pubblicato nel 1985 e reso noto di recente grazie alla tv, sicuramente ha influenzato i voti in America quando il diritto all’aborto è stato eliminato. Gli autori, come Rachel Carson, che nel passato hanno scritto della lenta ma inesorabile crisi ambientale stanno ora tornando in auge. Secondo Schama, se mai si trovasse una soluzione per salvare la Terra, “sicuramente non sarebbe per merito di banche dati o di algoritmi, ma per qualcosa come una poesia, un romanzo, un dipinto o una canzone.”



Supportare le inchieste in Africa


L’African Istitute for Investigative Journalism (AIIJ) è l’organizzazione  che promuove e sostiene la libertà di stampa e il giornalismo d’inchiesta in Africa. Intervistato da Maurizio Oniang’o per Reuters Institute, il giornalista ugandese Solomon Serwanjja parla delle attività svolte dall’istituto da lui voluto e creato: “Formiamo i giovani giornalisti, mostriamo loro come realizzare inchieste. Li aiutiamo a fare una valutazione del rischio e a decidere se accettare o meno un progetto. Abbiamo lanciato un bando, selezioniamo i migliori 10 giornalisti e insegniamo loro il mestiere”. Solomon ha alle spalle 14 anni di carriera nel giornalismo investigativo: nelle sue inchieste più celebri ha denunciato furti di fondi pubblici dei parlamentari ugandesi, vendite illecite di medicinali e spaccio di stupefacenti da parte degli agenti di polizia che, successivamente, gli hanno fatto irruzione a casa e arrestato sua moglie. Azioni che, se vediamo il bicchiere mezzo pieno, gli sono anche valse il prestigioso premio BBC Komla Dumor nel 2019. Credendo fermamente nel potere dell’inchiesta giornalistica, Solomon, nel 2020 con alcuni colleghi, ha fondato l’AIIJ, un’organizzazione che nasce per tenere vivo il giornalismo formando i giovani e offrendo loro supporto legale in un Paese come l’Uganda posizionato al 132esimo posto su 180 nel Global Press Freedom Index. L’istituto offre 5 programmi di formazione e fornisce sovvenzioni, mezzi e attrezzature per realizzare inchieste. La missione di Solomon è estendere l’azione dell’AIIJ prima nell’Africa orientale e poi in tutto il continente per il bene della libertà di stampa africana, ad oggi, messa a dura prova (vedi report di Africa Ex Press).



Comunicare la mobilità sostenibile


Il linguaggio dei media (e non solo) può disincentivare la mobilità sostenibile. A scriverne su Linkiesta è Chiara Beretta, che sulla stessa testata aveva già analizzato le lacune dell’attuale comunicazione del cambiamento climatico (vedi Editoriale 88). In quasi tutta l’Europa, osserva, il parco auto è in crescita, e nel 2021 soltanto a Milano sono stati investiti in media più di due ciclisti al giorno, fatti che avvengono su strade che, come osserva la docente e autrice di “Discourses of Cycling, Road Users and Sustainability: An Ecolinguistic Investigation” Maria Cristina Caimotto, sono costruite intorno all’idea che ci si muova prevalentemente in automobile. Una realtà nella quale siamo immersi e che, quindi, come i giovani pesci citati da David Foster Wallace in “This is Water”, paradossalmente non riusciamo a vedere: per questo, prosegue Caimotto, è considerato normale che lo spazio per biciclette sia ai margini della strada e nessuno si stupisce di fronte a interruzioni improvvise di piste ciclabili o loro occupazione da parte di utenti diversi dai ciclisti. C’è poi, a livello di narrazione giornalistica, un problema diffuso, sia in Italia sia nel mondo anglosassone: in molti casi si tende a soprassedere sull’azione del conducente e a evidenziare quella di chi viaggiava sul velocipede. Un fenomeno che si vede anche nelle scelte linguistiche: un titolo come “Auto investe pedone”, osserva Beretta, è estremamente comune, ed è spesso accompagnato da riferimenti a problemi relativi alla strada e alla viabilità o a comportamenti assunti da ciclisti e pedoni. Come cercare di ovviare al problema? Dal punto di vista linguistico, suggerisce Caimotto, un primo passo è mettere al centro la persona e non il mezzo di trasporto, seguito dal porre l’accento non tanto sulle scelte individuali virtuose, ma sul contesto che le rende possibili e sicure.

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