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Editoriale 91

La comunicazione sui media
04 - 10 luglio

12 luglio 2022

Giornalismo, tre storie. La finta trasparenza di TikTok. Biden perde la voce. Un comitato per la disinformazione. Criptovalute, metaverso ed entusiasmi immotivati. La giustizia in mano ai media. Gara di filantropia.

La Redazione


Giornalismo e politica in UK


La recente crisi politica del governo britannico ha riacceso i riflettori sul personaggio di Boris Johnson e sul suo rapporto con il giornalismo. Di questa relazione ha scritto il Columbia Journalism Review raccontando come il ministro uscente abbia avuto nella sua carriera politica un particolare rapporto con il mondo dei giornali di cui in passato faceva anche parte. Il suo modo di comunicare e agire rende evidente il suo pensiero nei confronti della stampa, utilizzata fin dall’inizio della sua carriera da giornalista come vetrina e trampolino di lancio verso mete e palchi più prestigiosi, anche a discapito della verità e della sua serietà. Già negli articoli ed editoriali di Johnson, come anche nella sua politica, è evidente il suo rapporto “parsimonioso con la verità” e la sua ripetuta mancanza di integrità che ha necessariamente influenzato la sua stessa immagine e reputazione. Le posizioni ondivaghe, gli slogan privi di progetti e la costante sensazione di superficialità hanno caratterizzato la figura di Boris Johnson, mostrandone i limiti come giornalista e come politico. Proprio a partire da questa complicata relazione con il giornalismo l’immagine di Boris Johnson è stata compromessa e plasmata, diventando un personaggio mediatico impossibile da dimenticare. Certamente è facile fare un parallelismo con Donald Trump, che però ha fatto dei tweet il suo principale trampolino mediatico di lancio, e con il suo modo di relazionarsi con i media. Ma ormai questi personaggi, sempre più popolari, rappresentano concretamente il potere e i limiti stessi dell’attuale politica e della sua necessaria relazione con il giornalismo, amico e nemico dei suoi rappresentanti che però non esisterebbero così come sono senza il racconto della stampa.



È questo il futuro del giornalismo?


La nuova startup di notizie Semafor, che inizierà le sue pubblicazioni a partire da ottobre, ha organizzato una conferenza stampa per discutere del futuro del giornalismo, invitando a parlare alcuni tra i più noti esponenti del giornalismo americano. Tra questi, come riporta NiemanLab, c’era anche il presentatore di Fox News, Tucker Carlson (vedi Editoriale 81), che ha monopolizzato gran parte della discussione e ha rivolto aspre critiche nei confronti dei colleghi e del co-fondatore e Ceo di Semafor, Ben Smith, rendendo la sua presenza un totale fallimento per l’evento lancio della startup. Smith, che è stato editorialista al New York Times e caporedattore a BuzzFeed News, ha posto a Carlson diversi quesiti sulla fiducia del pubblico, sull’importanza dell’obiettività e anche sulla sua presunta adesione alla teoria della “grande sostituzione” (l'idea secondo cui le élite stanno promuovendo l'immigrazione e “sostituendo” i bianchi americani per ricostruire la politica americana). A tali domande il conduttore di punta di Fox News ha risposto definendosi un antirazzista e uno strenuo difensore della libertà di opinione e della verità, vantandosi di non subire interferenze da parte della redazione di Fox News, aggiungendo inoltre che la rete per cui lavora è forse l’unica ad appellarsi al Primo Emendamento. Queste affermazioni non sono passate inosservate, infatti, il Washington Post ha ricordato in un articolo tutte le cause legali in corso contro l’emittente televisiva, specialmente per aver promosso teorie del complotto secondo cui le ultime elezioni presidenziali sono state rubate a Donald Trump. Si tratta in particolare delle cause intentate da Dominion Voting Systems e Smartmatic (vedi Editoriale 21, Editoriale 74 ed Editoriale 89). Inoltre, è stata citata anche l'intervista di Carlson con il CEO di “My Pillow” Mike Lindell, uno dei principali sostenitori delle cospirazioni sulle elezioni. Senza dimenticare le recenti dichiarazioni del conduttore a favore di Putin (vedi Editoriale 72). Mentre Carlson si definisce un paladino della verità gli avvocati di Fox News e Fox Corporation stanno lavorando per cause legali di diffamazione. I giudici in entrambi i casi hanno respinto le mozioni di archiviazione della rete e Fox ha integrato il suo team legale nel caso Dominion. L’intervento di Carlson, come già avvenuto in altre occasioni, ha fatto discutere e ci si chiede ora se si riferisse proprio a questo quando parlava dell’importanza del Primo Emendamento.



Un giornalismo più umano


Sul Washington Post Amanda Ripley racconta di essere diventata un paradosso, una giornalista che evita accuratamente le notizie. Un comportamento comune tra i suoi colleghi – specialmente tra le donne, riferisce – e tra gli statunitensi: secondo gli ultimi dati forniti dal Reuters Institute, infatti, gli USA hanno uno dei numeri più alti al mondo in termini di “tenersi alla larga dalle notizie” (circa 4 persone su 10 le evitano qualche volta o spesso). Un comportamento che si può spiegare, secondo l’autrice, con la sottovalutazione, da parte del giornalismo, dell’importanza del fattore umano. Essere perennemente esposti mentalmente e fisicamente a notizie catastrofiche e confuse e a fotografie, continua, non è sostenibile: la punta dell’iceberg in questo senso è rappresentata da casi di headline stress disorder. È tempo, quindi, di un cambio di paradigma che, suggerisce l’autrice, per essere tale deve investire su tre fattori: speranza, agency, intesa come avere la possibilità di fare qualcosa per poter contrastare le catastrofi contemporanee, e la dignità, che si può esplicitare in una comunicazione empatica con le persone da parte dei media. Nel panorama statunitense alcune realtà – tra cui il Washington Post stesso – si sono mosse in questa direzione ma, evidenzia Ripley, si tratta ancora di casi sporadici. Tuttavia, qualcosa negli States si sta muovendo in termini di cambiamenti di paradigma, anche se non nella stessa accezione: la CNN di Chris Licht ha razionalizzato l’uso del banner “Breaking News”, limitandolo alle sole notizie realmente urgenti (vedi Editoriale 86). Innovazioni che potrebbero trovare una complementarietà con le proposte di Ripley nell’ottica di costruire un giornalismo a misura d’uomo, che oggi si trova, parafrasando Krista Tippett, a essere “una creatura analogica in un mondo digitale”.



La finta trasparenza di TikTok


Nella “battaglia” mediatica tra Occidente e Cina un ruolo chiave viene ricoperto da TikTok, social che, in pochi anni, ha quasi surclassato il seguito dei colossi della Sylicon Valley, Facebook e Instagram in primis. Ma cosa si nasconde dietro la piattaforma seguita da oltre un miliardo di utenti e quali rischi può provocare? A spiegarli il The Economist secondo cui la privacy dei dati e il ruolo dell’informazione possono essere viziati da TikTok sotto la cui semplice interfaccia nasconde un'intelligenza artificiale spaventosamente avanzata in grado di capire cosa piace alle persone. L'algoritmo dell'app è alimentato a Pechino e questo rappresenta, per gli americani specialmente, un punto critico. Anche se TikTok ha offerto a terzi la possibilità di ispezionare il suo algoritmo come segnale di trasparenza, i Paesi Occidentali prima o poi potrebbero decidere di bloccare l’app, visto il crescente proliferare di fake news (vedi Editoriale 90) o situazioni ambigue in cui il ruolo della piattaforma, apparentemente di censore rispetto a certi contenuti come quelli condivisi dalle forze pro russe sulla guerra in Ucraina, non risulta particolarmente chiaro (vedi Editoriale 77).



Biden perde la voce


Kate Bedingfield, direttrice della comunicazione della Casa Bianca, che ha contribuito a definire la strategia di comunicazione per la campagna elettorale e durante la presidenza Biden, si dimetterà dalla sua posizione quest'estate. Un articolo del New York Times riporta la dichiarazione di alcuni collaboratori della Casa Bianca, che hanno confermato che la Bedingfield sarà l’ultimo consigliere di alto livello a lasciare l'amministrazione Biden. Si prevede che assisterà, comunque, la Casa Bianca dall'esterno dell'amministrazione, anche se la sua prossima posizione non è ancora chiara. Alla Bedingfield è stato riconosciuto il merito di aver aiutato Biden a vincere le elezioni del 2020, ad approvare le misure contro il coronavirus e a garantire la nomina alla Corte Suprema del giudice Ketanji Brown Jackson. Nelle ultime settimane hanno però lasciato la Casa Bianca anche altri assistenti stampa, oltre ad alcuni membri dello staff di grado più elevato. Tra gli altri, Jen Psaki ha lasciato il suo incarico di addetto stampa della Casa Bianca per un ruolo alla MSNBC. Pezzo dopo pezzo, la Casa Bianca sta perdendo la sua voce?



Un comitato per la disinformazione


Come raccontato dal New York Times, le agenzie federali americane, già lo scorso settembre, avevano chiesto ai vertici del Dipartimento per la sicurezza nazionale di creare un comitato per monitorare le minacce causate dalla disinformazione (vedi Editoriale 60). E quando il segretario Alejandro N. Mayorkas ha annunciato in aprile la costituzione di una commissione per la disinformazione, molti repubblicani sono andati contro alla scelta perché - a parer loro - si trattava di un tentativo orwelliano di soffocare le opinioni dissenzienti. Lo stesso hanno fatto alcuni critici di sinistra, che hanno messo in dubbio i poteri che un simile ufficio potrebbe esercitare nelle mani di future amministrazioni repubblicane; nel giro di poche settimane il nuovo consiglio è stato quindi smantellato, ufficialmente messo in “pausa”. Il governo federale - come riporta un altro articolo del  New York Times - è ampiamente d'accordo sul fatto che le campagne di disinformazione minacciano di esacerbare le emergenze sanitarie, di fomentare le divisioni etniche e razziali e persino di minare la stessa democrazia; tuttavia, il destino beffardo della commissione ha sottolineato quanto la questione sia diventata profondamente di parte a Washington, rendendo quasi impossibile pensare di affrontare la minaccia.



Criptovalute, metaverso ed entusiasmi immotivati


Sul mondo delle criptovalute, si è abituati a due tipici approcci diametralmente opposti ed egualmente polarizzati: l’ingiustificato entusiasmo o l’incrollabile diffidenza. Entrambe le posizioni sono solitamente sorrette da una carente (per non dire inesistente) consapevolezza sul funzionamento del settore. I media, sottolinea un articolo de Il Post, hanno giocato in questa partita un duplice ruolo: da un lato, hanno assunto un atteggiamento di indefesso pessimismo; dall’altro lato, hanno contribuito a diffondere il fenomeno amplificandone l’importanza e, conseguentemente, alimentando la curiosità e l’entusiasmo. Ma il ruolo di protagonista è spettato ai social media e personaggi quali Elon Musk e il suo ben noto “ciclo dell’hype”, tra promesse, delusioni e redenzioni. Cui si aggiungono le numerose celebrità che hanno espresso il loro sostegno agli NFT, il cui interesse appare tuttavia spesso affatto genuino: molti sono infatti investitori delle principali piattaforme di scambio, quali Opensea. Numerose testate recentemente costituite, dedicate alla blockchain e alle sue applicazioni, non prevedono poi alcuna norma deontologica per evitare conflitti di interessi sugli investimenti, né regolano i rapporti tra investitori, pubblicitari e fonti. Testate, oltretutto, la cui sopravvivenza dipende direttamente dalla crescita del settore. Il medesimo ruolo dell’hype ha altresì riguardato gli annunci di numerose aziende, Meta in testa, sul metaverso: descritto come imminente, ma in realtà ancora inesistente. Con conseguenti bolle speculative fondate sul nulla, incrementando il valore azionario di aziende in realtà non profittevoli e finanziariamente non sostenibili. Un esempio recentemente discusso è Uber, che continua ad attrarre investitori per la sua ambiziosa mission nonostante, secondo numerosi esperti, non sarà mai in grado di recuperare l’enorme debito accumulato (circa 30 miliardi di dollari di perdite).



La giustizia in mano ai media


Il fatto che i mezzi di comunicazione della postmodernità spingano alla frettolosità di giudizio è cosa nota, ma quando si parla di giustizia la questione è più delicata. Come ha analizzato il Sole 24 ore, commentando la recente uscita dell’indagine di Vittorio Manes, Giustizia mediatica (il Mulino), esiste ormai un fenomeno detto “populismo penale” che altro non sarebbe che la narrazione del sistema penale attraverso i media e come questa influenzerebbe le decisioni dei tribunali. Quando un processo è comunicato pubblicamente in ogni suo dettaglio è conseguenza naturale che ogni spettatore crei dentro di sé una propria opinione che, però, se condivisa dalla maggior parte del pubblico, può diventare tanto forte da spingere il giudice ad optare per una decisione piuttosto che per un’altra. Se vengono considerate la privazione preventiva della libertà, la presunzione di colpevolezza e la gogna mediatica, una successiva assoluzione farebbe perdere di credibilità la giustizia disorientando il pubblico, ancor di più se si considera l’esposizione mediatica dell’accusa attraverso social network, interviste e talk show. La comunicazione mai come in questi casi appare polarizzata, ogni fazione sostiene le proprie ragioni e si immedesima in personaggi pubblici che divulgano le proprie idee. Emblematico, a questo proposito, il caso del processo Depp-Heard che ha incoraggiato influencer a raccontarne e commentarne l’evoluzione (vedi Editoriale 86). Ne consegue, quindi, che l’impatto della comunicazione mediatica possa influire negativamente sia sulla narrazione pubblica della vicenda sia sul confronto e nella valutazione in sede processuale.



Gara di filantropia


Gli importi donati alle redazioni del Regno Unito stanno aumentando e la filantropia è una crescente fonte di entrate per i giornali. Secondo una ricerca di Press Gazette, dal 2019 a oggi il giornalismo in UK ha ricevuto almeno 77 milioni di sterline in donazioni; lo studio si basa su dati forniti da alcuni finanziatori e beneficiari, nonché su documenti messi a disposizione dalla Charity Commission e da 360Giving. La ricerca include anche il sostegno al giornalismo da parte dei giganti della tecnologia come Google e Facebook. Nonostante le cifre molto alte, però, i dati mostrano come il record di finanziamenti ai giornali sia detenuto dagli Stati Uniti. La ricerca di Press Gazette, infatti, per avere un quadro internazionale, si estende oltre oceano andando ad analizzare le sovvenzioni riportate in un database dalla rete di donatori statunitensi Media Impact Funders. I dati mostrano come le redazioni di tutto il mondo abbiano raccolto un record di 619,5 milioni di dollari (518 milioni di sterline) da donatori nel 2020 (i dati per gli anni successivi non sono stati completamente riportati). Sebbene sia più probabile che i Media Impact Funders con sede a Filadelfia ricevano informazioni sui dati dagli Stati Uniti, i dati mostrano come gli USA, che hanno una forte cultura di donazione filantropica alle notizie, guidino il mondo con un ampio margine. I sedici principali finanziatori infatti sono basati negli Stati Uniti. L'elenco è in cima alla lista della Ford Foundation che ha fornito 271 milioni di dollari per sostenere il giornalismo dal 2009;  beneficiari includono il Global Investigative Journalism Network e il Center for Investigative Reporting. Il più grande finanziatore del Regno Unito riportato nel database, Arcadia, ha invece concesso sovvenzioni per un totale di 10,3 milioni di dollari.

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