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Editoriale 71

La comunicazione sui media
14 - 20 febbraio

22 febbraio 2022

Le Olimpiadi dei fake. TikTok contro Kiev. L’insostenibile leggerezza della disinformazione. La destra social. La comunità afgana cerca conforto su Twitter. Onori e oneri di Baquet al Times.

La Redazione


Le Olimpiadi dei fake


Le Olimpiadi sono state, per le politiche di propaganda cinese, uno strumento mediatico potente per trasmettere un’immagine di “paese delle meraviglie”, in contrasto alla narrazione occidentale che ne evidenzia le cospicue violazioni di diritti umani. A partire dall’atleta uiguro divenuto per l’occasione simbolo dell’unità nazionale cinese, oltre alla mascotte ufficiale del panda, la celebrazione dell’armonia politica nazionale costruita ad hoc per l’evento sportivo si è avvalsa di una fitta rete di bot e account fittizi sui social media. Secondo una ricerca del New York Times, infatti, sarebbero infatti oltre 3000 i fake account su Twitter, creati per convogliare messaggi e hashtag volti ad amplificare le voci cinesi ufficiali e rendere virali la mascotte e i messaggi chiave di Pechino. Al pubblico cinese è poi pervenuta una selezione accurata di informazioni, con rimozione di polemiche e scandali: la sconfitta della squadra cinese di hockey maschile a vantaggio degli USA non è stata trasmessa sul principale canale sportivo della TV nazionale, al pari dell’assegnazione dell’oro all’atleta statunitense Nathan Chen. Nei filmati, i monti sono stati abilmente ripresi solo nelle parti innevate artificialmente. A ciò si aggiunge una campagna social che si è avvalsa di influencer e agenzie (anche statunitensi) a potenziamento della propaganda, talvolta supportata dagli stessi atleti partecipanti. D’altronde costoro erano stati messi in guardia dai funzionari cinesi sulle nefaste conseguenze per chi avesse tentato di mettere in cattiva luce l’immagine di Pechino, e anche Nancy Pelosi ha ritenuto di sconsigliare gli atleti in tal senso. Un altro articolo del New York Times evidenzia infatti la sempre maggiore tendenza delle istituzioni e imprese americane ad accettare compromessi eticamente dubbi ma inevitabili per poter accedere all’ambito mercato cinese. Censure (auto)imposte, che spaziano dal riconoscimento di Taiwan alla situazione di Hong Kong, dalla bandiera giapponese a messaggi filoamericani. Il tutto nella sostanziale impotenza delle istituzioni occidentali.



TikTok contro Kiev


TikTok sta diventando un mezzo per diffondere disinformazione sui difficili equilibri tra la Russia e l’Ucraina. Le caratteristiche della piattaforma sono infatti ideali per veicolare contenuti falsi in poco tempo, facendoli sembrare veri e spontanei. Come afferma Formiche, i video brevi e d’effetto, adatti a diventare subito virali, e l’algoritmo che favorisce il contenuto amatoriale rispetto a quello professionale sono ciò che porta Tik Tok a creare un maggior engagement rispetto a tutti gli altri social network. Non c’è da stupirsi, dunque, che sia anche diventato uno strumento per la propaganda filorussa. In questo modo Mosca rafforza la propaganda interna e confonde le acque all’estero. Riprese via drone di esercitazioni militari, che potrebbero essere state girate da qualunque utente, confronti, anche spiritosi, tra gli eserciti della Russia e quelli della Nato: sono questi gli elementi che hanno portato la metà dei russi a incolpare l’Ucraina e la Nato per le tensioni in corso (secondo le statistiche di Levada Center). In un’informazione così inquinata è importante educare i più giovani ad analizzare i contenuti diffusi dai social. Basti pensare alla foto di tre bambini che giacciono senza vita sul ciglio di una strada, diffusa poco tempo fa su Twitter e Telegram, accompagnata da una frase che adduceva la responsabilità del fatto all’Unione Europea, nonostante fosse una foto risalente al 2012 che ritraeva tre vittime del terrorismo a Damasco. L’obiettivo, come evidenziato da Formiche, è stato quello di screditare le istituzioni europee e concentrare il consenso attorno al Cremlino. A causa di questa continua information warfare da parte della Russia si sono diffuse diverse idee: che la colpa è da attribuire tutta alla comunità euro-atlantica, che la Russia è innocente, che le sanzioni a Mosca sarebbero ingiustificate.



L’insostenibile leggerezza della disinformazione


Il Washington Post e il New York Times, complici i recenti avvenimenti internazionali, hanno dedicato un paio di articoli al tema della disinformazione, specie sui social, e del reale peso che questa ha realmente nelle nostre vite. L'anno scorso lo scrittore Joe Bernstein ha parlato di "Big Disinfo" definendola come un "nuovo campo di produzione della conoscenza” e, con l’utilizzo dei social, è evidente che la disinformazione continua ad assumere forme diverse ma il problema è adesso quello di comprendere ciò che la disinformazione comporta nella realtà, in tutte le sue sfaccettature. I social fanno circolare in ogni momento numerose informazioni e contenuti che, a seconda degli algoritmi, vengono ben classificate e indirizzate: è evidente infatti che ad oggi le principali piattaforme social offrono alle persone quello che vogliono vedere/leggere, incoraggiando così opinioni, punti di vista e in alcuni casi false credenze (vedi Editoriale 68, 65 e 37). La disinformazione è sempre esistita ma di certo sono cambiati i mezzi ed è per questo diventata ancora più pervasiva. Big tech e Governi continuano a discutere in diverse occasioni su colpe e responsabilità in merito ma la situazione è ancora più complessa. La disinformazione, specialmente adesso con i social, non si muove a senso unico, ma è alimentata costantemente da governi, organizzazioni e singoli cittadini. Le definizioni di disinformazione possono essere tante (vedi Editoriale 60 e 21) ma che peso ha nelle nostre vite e come riusciremo a contrastarla realmente non è ancora chiaro.



La destra social


Truth, il social network di Trump che vuole porsi come alternativa di destra a Twitter, potrebbe aprire le sue porte il mese prossimo, ma il business dell'indignazione potrebbe non essere il miglior modo per fare soldi. Infatti, come riportato dal New York Times, almeno altre sette aziende di social media hanno promesso di fare lo stesso. Gettr, un'alternativa di destra a Twitter fondata l'anno scorso da un ex consigliere di Trump, si presenta come un rifugio dalla censura esattamente come Parler, un altro clone di Twitter sostenuto da Rebekah Mercer, grande donatrice del partito repubblicano. Se e quando aprirà i battenti, l'app di Trump sarà il più recente concorrente nell’affollato universo di aziende di social media nate negli ultimi anni, promettendo di costruire una rete parallela dopo che le piattaforme mainstream hanno iniziato a reprimere i discorsi di odio. Milioni di utenti si sono iscritti a queste cosiddette piattaforme alternative, attratti dalla promessa di uno spazio slegato da ciò che considerano la censura delle voci conservatrici. La situazione per queste aziende, però, ha già dimostrato di essere insicura. La maggior parte delle start-up alt-tech stanno inseguendo lo stesso bacino di utenti, molti dei quali potrebbero spendere solo una frazione del loro tempo sui social media per cause politiche di parte. Inoltre, gli esponenti di spicco della destra hanno già grandi e ben consolidate fanbase sui social media tradizionali, rendendo improbabile un loro passaggio totale a una nuova piattaforma, a meno che non siano stati bannati. Tra tutti i siti alt-tech, il social di Trump può avere le maggiori possibilità di successo non solo a causa del suo ampio potere ma anche per la sua forza finanziaria. Se Parler si sta ancora riprendendo dopo il ruolo assunto durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, la sfida per Truth Social sarà la capacità di moderazione dei contenuti che incitano all’odio. In ogni caso, è chiaro che Trump stia costruendo una comunità che combatterà per qualcosa o per qualsiasi cosa lui sosterrà un giorno.



La comunità afgana cerca conforto su Twitter


Come riporta The New York Times, da poco tempo Twitter è diventato un luogo di riferimento per migliaia di afgani che stanno ancora cercando di riprendersi dal crollo del precedente governo e che, tramite il social network, cercano risposte a tutto (vedi Editoriale 47). Infatti, su Spaces, una funzione di chat audio dal vivo, diversi afghani hanno avuto modo di ascoltare ex funzionari governativi parlare di corruzione, sprechi e furti da parte di quell’esecutivo che serviva in precedenza il Paese. In questo scenario, Naser Sidiqee, un ex funzionario del governo che ha ospitato una serie di spazi sulla corruzione, il nepotismo e l'incompetenza del precedente esecutivo, ha detto che per lo più incanala i dibattiti per concentrarsi sull'esame delle “cause profonde del crollo”, con l’obiettivo di rendere i suoi concittadini “pronti per il futuro”. Una domanda, però, appare lecita: il social del cinguettio sarà il canale giusto per informarsi?



Onori e oneri di Baquet al Times


In vista del suo previsto ritiro, Dean Baquet, direttore esecutivo del Times, in un’intervista rilasciata al The New Yorker riflette sulla crescita senza precedenti della sua redazione e sull'influenza di Twitter sul giornalismo. Quando Baquet è subentrato come direttore del Times nel 2014 - il primo direttore nero a ricoprire il ruolo - il giornale ha affrontato licenziamenti e un futuro incerto. Ma quando quest’anno, all'età di sessantacinque anni come da tradizione aziendale Baquet si dimetterà, lascerà non solo un giornale fiorente, ma un fiorente impero mediatico. Durante i suoi otto anni al timone, il Times ha vinto più di una dozzina di premi Pulitzer, il numero dei membri dello staff della redazione è aumentato da milletrecento a duemila, e gli abbonamenti sono aumentati. Sebbene il Times sia, per molti versi, fiorito sotto Baquet, ha anche affrontato la sua parte di controversie: è stato criticato per la sua copertura esaustiva delle e-mail di Hillary Clinton durante le elezioni del 2016, e per aver sottovalutato la minaccia di Donald Trump. Riguardo alle critiche Baquet risponde così: “Credo che ogni generazione pensi a questi problemi in modo diverso. Il mio lavoro è cercare di convincere la mia redazione che non dovrebbe essere eccessivamente influenzata dalle critiche di Twitter, e che non dovrebbe avere paura di affrontare argomenti che sono taglienti e complicati. Che dovrebbero riferire quei soggetti in modo indipendente ed equo, e se a Twitter non piace Twitter può saltare nel lago”. Staremo a vedere come si comporterà il prossimo direttore.

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