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Editoriale 5

La settimana sui media
12 - 18 ottobre

20 ottobre 2020

Ascesa e declino di Twitter, occasione mancata di democrazia deliberativa. Cosa c’entra Diego Fusaro con i pasdaran iraniani e come Savanna Guthrie ha sbaragliato QAnon. Censura e doppi pesi per Twitter e Facebook, i loro problemi con le fake news e il mai risolto rapporto tra politica e scienza.

La Redazione

· Riccardo Luna torna (vedi Editoriale 2) sul tema dell’influenza di Twitter sulla politica italiana. Riportando uno studio di KPI6, riproduce una mappa analitica molto dettagliata sull’utilizzo e gli effetti del social media da parte di politici e partiti. Le conclusioni non sono una sorpresa. In sintesi, i partiti twittano molto, ma con pochi risultati in termini di crescita e di partecipazione. I leader, a parte Salvini, twittano sempre meno e, soprattutto, non rispondono quasi mai. La sensazione è che si stia perdendo un’occasione. Twitter potrebbe essere uno strumento molto efficace per avvicinarsi a quel concetto di “democrazia deliberativa”, che ha in Habermas il massimo teorico, da contrapporsi all’idea declinante di democrazia diretta. Una democrazia dove sono mantenuti i corpi intermedi, e dove gli elettori individuano uno spazio di discussione sui temi che poi sono oggetto di votazione in parlamento. Twitter sta tornando invece a essere una tribuna a senso unico.


•  Sempre a proposito di internet e democrazia, Formiche dedica un’analisi del sito pergiustizia.com, ora oscurato, in cui venivano lanciate o rilanciate teorie complottiste o negazioniste. Incredibilmente, pergiustizia.com fa parte di una rete di altri 91 siti di propaganda che fanno riferimento ai pasdaran iraniani. Il sito raggruppava, forse a loro insaputa, i post di alcuni influencer italiani come Alessandro Meluzzi, Claudio Messora e Diego Fusaro. Anche se la notizia è vera, abbiamo scritto che è incredibile. È cioè incredibile pensare che gli ayatollah di Teheran si servano di Meluzzi o Messora per tentare di destabilizzare l’Occidente. Anche questa è la forza di Internet, che crea realtà così vere da sembrare assurde.


• Come se non bastasse, Linkiesta si occupa di QAnon, riportando un articolo del New York Times. Ma la novità è che il complottismo sembra ormai aver invaso l’intero campo di gioco della politica americana: in occasione della malattia di Trump, sono uscite diverse ipotesi complottiste (non è vero che ha il Covid, è una messinscena, è morto e quello è un sosia, eccetera). Molte di loro sono state diffuse da esponenti e comunità vicino ai democratici, che la vulgata vorrebbe più informati e meno creduloni. Potrebbe essere il tramonto della realtà condivisa, solitamente appannaggio dei media tradizionali. Eppure, tutti hanno in mente Savannah Guthrie, la giornalista che pochi giorni fa ha ricordato a Trump di essere il Presidente degli Stati Uniti e non lo “zio pazzo che ritwitta quello che gli capita”. Si riferiva a una fake news su Biden proprio di QAnon: sono bastati cinque secondi di vecchio, buon giornalismo televisivo per smontare una assurda costruzione complottista.


· La censura ai tempi dei social colpisce ancora? Facebook e Twitter hanno recentemente limitato la diffusione del lungo articolo del New York Post che accusava il figlio di Biden e i suoi affari in Ucraina. Decisione che ha scatenato l’ira dell’establishment del Partito repubblicano, secondo il quale si tratterebbe di un modo per censurare notizie che potrebbero mettere in difficoltà la campagna elettorale dei democratici. Mentre Facebook ha deciso di limitare la distribuzione dell’articolo, Twitter invece ha adottato una politica più rigorosa considerando l’articolo una violazione delle sue regole sulla privacy e sugli hackeraggi. Per questo, il social di Dorsey ha bloccato i tweet di chiunque cerchi di condividere il link dell’articolo, l’account Twitter del New York Post e altri account molto noti che avevano condiviso il link, primo fra tutti quello di Kayleigh McEnany, la portavoce della Casa Bianca. Sarà forse Twitter geloso degli investimenti pubblicitari dei repubblicani, che registrano una spesa giornaliera di 794mila dollari su Facebook? E inoltre, che fine ha fatto quel Facebook che non voleva essere l’arbitro della verità?


· Le piattaforme social sono davvero diventate più sofisticate nel gestire la disinformazione? Non necessariamente secondo una nuova ricerca del German Marshall Fund Digital. In totale, i “Mi piace”, i commenti e le condivisioni di articoli che riprendono regolarmente fake news e contenuti fuorvianti sono quasi triplicati su Facebook dal terzo trimestre del 2016 al terzo trimestre del 2020, ha rilevato il gruppo. Facebook ha affermato che si tratta di dati non in grado di catturare ciò che la maggior parte delle persone vede e dunque non sufficienti per trarre conclusioni come quelle evidenziate dalla ricerca. Dure le parole di Karen Kornbluh, direttrice di GMF Digital, la quale sostiene che reprimere la disinformazione "va solo contro i loro incentivi economici".


· Secondo l’articolo di Scientific American gli scienziati vengono spesso inquadrati come soggetti scomodi per i poteri forti. Non possono essere giudicati incompetenti o essere messi da parte per le loro opinioni perché appartengono a una comunità internazionale che li sosterrà. Devono essere dunque screditati in qualche modo. Al tempo dell'Unione Sovietica, l'accusa preferita era la follia. Oggi, l'accusa preferita sembra essere “sostenere il terrorismo”. Che sia follia o terrorismo, sembra ancora lontana l’armonia tra politica e scienza.

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