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Editoriale 3

La settimana sui media
28 - 04 ottobre

6 ottobre 2020

Le imminenti elezioni americane, i rischi della propaganda online e l’utilità del fact checking in un mondo polarizzato. Il soft power cinese amplificato dagli ambassador. I social media nelle mani di Erdogan sono gli stessi delle democrazie? Populismo e solitudine: una ricerca del King’s College.

La Redazione

· Cosa succederà alle elezioni Usa del prossimo novembre? Wired ricorda come quelle del 2016 siano passate alla storia per le molteplici iniziative di cyberwar. Le prossime potrebbero correre gli stessi rischi, in particolare nei giorni immediatamente successivi al voto, quando saranno in corso le verifiche sui conteggi e quando Trump potrebbe cedere alla tentazione di far saltare il banco e non riconoscere l’eventuale sconfitta. Ma è giusto ammettere che Donald Trump ha dato prova di sapere usare efficacemente i social media anche senza giocare sporco. Nel suo “Tecnologie per il potere”, Giovanni Ziccardi riassume i punti salienti della strategia social di Trump nel 2016, affidata a Brad Pascale. Da uomo d’azienda qual è, Trump utilizzò una tecnica B2C, considerando gli elettori come clienti, e sviluppò un’azione mirata a erodere quello che era considerato l’elettorato di riferimento della Clinton (liberali bianchi idealisti, giovani donne e cittadini afroamericani). E, particolare non secondario, investì 70 milioni di dollari al mese solo nella campagna digitale.


· Il duello televisivo tra Donald Trump e John Biden è stato seguito da decine di fact-checker delle testate più importanti, che aggiornavano in tempo reale la matrice vero – falso relativa alle affermazioni dei due contendenti. Riccardo Luna ricorda che, nel mondo polarizzato di internet e dei social media, i fatti sembrano ormai scomparsi. D’altra parte, i fact-checker sanno che il loro lavoro non farà cambiare idea e voto agli irriducibili delle due parti, ma farà ragionare gli altri. Ma il problema è che la polarizzazione sembra ormai aver preso talmente campo da non lasciare spazio agli “spiriti indipendenti”. Come racconta il documentario “The Social Dilemma” (sul punto si consiglia la lettura dell’Editoriale 1), l’ambiente cognitivo dei social network è pensato per annullare il pensiero critico, e indurre scelte predeterminate negli utenti. Il fact checking è insomma un’opera meritoria, ma rischia di rimanere un’arma che vorranno usare in pochi, mentre gli altri la useranno solo mezzo di conforto, per avere conferma di ciò in cui già credono.


· Medici che si credono politici ed economisti che diventano medici. Su Twitter il virologo Roberto Burioni e l’economista Michele Boldrin se le sono date di santa ragione, al limite della docenza, come scrive Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Ennesimo litigio, dalla TV ai social media, tra esperti italiani a discapito dei cittadini che in questi mesi hanno imparato quale sia l’importanza di una comunicazione scientifica trasparente e autorevole, fattore fondamentale e determinante per un loro attivo coinvolgimento. Forse si dovrebbe prestare più attenzione alla strategia non medica ma comunicativa di Andres Tegnell, epidemiologo di Stato in una Svezia anti-lockdown (su questo punto si consiglia la lettura dell’Editoriale 1 e dell’articolo “Sfiducia nella scienza e opinione pubblica” scritto da Massimiano Bucchi per il Corriere della Sera).


· L’ambasciatore cinese in Italia ha rilasciato dichiarazioni pesanti contro il segretario di Stato Pompeo per le sue esternazioni nei confronti della politica estera e commerciale del Dragone. È una reazione giustificata e rientra nella tormentata storia della dialettica diplomatica tra i due paesi. Ma quello che emerge nell’articolo di Formiche è che la strategia cinese non è più fondata solo sul soft power (dagli istituti confuciani sparsi per il mondo agli eventi sportivi realizzati con scenografica perfezione). Essa ricorre piuttosto anche a “guerrieri” (ambasciatori, portavoce, intellettuali, eccetera) pronti ad attivarsi su indicazione del Comitato centrale del partito comunista e che sono ramificati in tutto il mondo. Anche se non c’è nulla di più potente ed evocativo del programma Belt and Road annunciato da Xi Jinping.


· Ma se i social media sono davvero così come li descrive “The Social Dilemma”, come dovremmo interpretare le restrizioni messe in atto da Erdogan? In realtà Facebook e Twitter sembrano soffrire di valutazioni contrastanti: nemici delle dittature e, allo stesso tempo, nemici del pensiero critico. Per chi si occupa di geopolitica, la mossa del dittatore turco non può essere una sorpresa ed è in linea con altri provvedimenti adottati soprattutto in seguito al tentativo di colpo di stato nel 2016. E quindi si potrebbe arrivare a una conclusione paradossale: nelle dittature i social media sono temuti perché favoriscono l’apertura, nelle democrazie liberali son temuti perché portano alla chiusura (della mente)?


· Chi si sente solo vota i populisti? Secondo Linkiesta, che riprende le parole dell’economista britannica Noreena Hertz in “The Lonely Century”, alla base del fenomeno populista ci sarebbe – insieme ad altre condizioni – la solitudine. Una ricerca del King’s College del 2019 ha dimostrato che chi si sente solo comincia a vedere l’ambiente circostante come “poco amichevole, ostile, poco coeso e inaffidabile”. Ed è qui che farebbe leva la propaganda populista-sovranista, abile non solo nel creare un “frame” di intimità e vicinanza ma anche nell’individuare un nemico, operazione necessaria in campagna elettorale e non solo. I comunisti di Berlusconi sono un ottimo esempio. A quale fattore, oltre la solitudine, faranno affidamento i Cinque Stelle e la Lega, partiti in netto calo stando ai risultati delle ultime elezioni regionali? Una delle regole non scritte della comunicazione politica è “when in trouble go big”.


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