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Editoriale 146

La comunicazione sui media
02 - 08 ottobre

10 ottobre 2023

Polonia: tra elezioni e propaganda di stato. Aggiornare le campagne elettorali serve. La retorica di Trump: più la ignori più colpisce. L’impatto ambientale della pubblicità online. Chi paga il conto? Lezioni di (non) comunicazione.

La Redazione


Polonia: tra elezioni e propaganda di stato


La Polonia entra nell’ultima settimana di campagna elettorale in vista delle elezioni politiche, campagna che ha visto protagonista la televisione pubblica. Come raccontato da The Guardian, infatti, l’attuale partito al potere Diritto e Giustizia (PiS), nazionalista e populista, ha l’obiettivo di restare al governo per un terzo mandato e, per indirizzare e forzare l’opinione pubblica a suo favore, si è servito della televisione e dei canali d'informazione pubblica per diffondere la propaganda del partito. Anche se internet rappresenta una delle principali fonti d'informazione dei cittadini polacchi, la tv di stato TVP conta ancora circa due milioni di spettatori, specialmente nelle città più piccole e nelle aree rurali, ossia il cuore del partito PiS. Negli anni al governo il partito ha sempre fatto pressione sull'opinione pubblica e i canali d'informazione, generando una distorsione dei contenuti di informazione. “I media pubblici sono stati completamente trasformati in propaganda del PiS e agiscono non solo per promuovere gli interessi del partito ma anche per attaccare e denigrare i suoi critici”, si legge in un rapporto pubblicato giovedì dal Centro europeo per la libertà di stampa e dei media. Se il PiS vincesse le elezioni, probabilmente si assisterebbe a un ulteriore peggioramento della qualità dell’informazione; mentre se trionfasse l’opposizione, potrebbe aprirsi la strada alla fine dell’odio e della propaganda. Su questo però sarà solo il tempo a darci una reale risposta.



Aggiornare le campagne elettorali serve


Un nuovo studio condotto dall’azienda Swayable, che analizza l’impatto dei media e dei messaggi pubblicitari sulle persone, esaminato in anteprima da Semafor, potrebbe mettere in discussione alcune teorie popolari del Partito Democratico americano su come vincere le elezioni, sostenendo che la pubblicità dovrebbe essere basata più sulla sperimentazione che sulla teoria. La ricerca, che sarà pubblicata sulla rivista American Political Science Review, ha esaminato 146 spot su un totale di 617 pubblicità prodotte durante le campagne dei democratici nel 2018 e nel 2020. Gli annunci sono stati testati su 500.000 intervistati tramite la piattaforma Swayable. Il risultato? Controverso: alcuni annunci hanno infatti funzionato meglio di altri ma sembra non esserci una logica ben precisa dietro a tale preferenza. Innanzitutto, l'idea secondo cui le campagne dovrebbero concentrarsi sulle posizioni più popolari non è risultata chiaramente vincente nei dati; in secondo luogo, nemmeno gli spot incentrati su questioni identitarie hanno influito in modo coerente. Forse quest’analisi non darà mai una risposta chiara su come un partito dovrebbe costruire una campagna efficace, ma suggerisce che basarsi puramente sulle statistiche e sui sondaggi non sempre porta a risultati soddisfacenti. L'opinione pubblica è un bersaglio mobile e complesso, e ciò che ha funzionato finora non è detto che funzioni anche in futuro. Questo studio potrebbe rivelarsi importante, se si pensa che negli Stati Uniti i partiti sono tra i più grandi inserzionisti del mondo e ogni quattro anni riversano miliardi di dollari in televisione, social, radio e mailing. Quest’anno forse alcuni faranno più attenzione. Altri studiosi, invece, rimangono scettici sulla validità di questa ricerca.



La retorica di Trump: più la ignori più colpisce


“Molto semplicemente, se rapini un negozio, puoi aspettarti che ti sparino mentre esci dall’edificio”, a dirlo è l’ex presidente Usa Donald Trump che, come riporta The Washington Post, sta adottando un uso frequente di insinuazioni violente e minacce, spesso però trascurato dal mondo dell’informazione poiché è diventato quasi una consuetudine. Questa tendenza, spiega l’articolo, può distorcere la percezione mediatica e ridurre l'attenzione su altri candidati e questioni più rilevanti, ma gli esperti ritengono che riceva solo una limitata copertura mediatica a livello nazionale. Brian Klaas, politologo presso l'University College London, sottolinea che questa strategia rifletta “la banalità del folle”, con i media che sembrano ignorare dichiarazioni una volta considerate scioccanti, ma oggi considerate più scontate. Klaas avverte che, nonostante l'abitudine alle dichiarazioni provocatorie di Trump, esse non dovrebbero essere sottovalutate, poiché potrebbero avere gravi implicazioni sulla politica statunitense. Susan Glasser, una corrispondente del New Yorker, sottolinea che le affermazioni dell’ex Presidente devono essere prese “letteralmente e seriamente” dai media, indipendentemente dalla loro frequenza. Questo solleva importanti interrogativi sulla capacità dei media di affrontare la retorica di Trump che continua ad avere presa sui suoi sostenitori.



L’impatto ambientale della pubblicità online


La pubblicità online sta contribuendo significativamente alle emissioni di gas serra, e il settore è ora sotto pressione per ridurre il suo impatto ambientale. Come riporta Semafor, le grandi aziende sono sempre più consapevoli del fatto che i loro uffici di marketing potrebbero essere responsabili di emissioni “nascoste”.  Ciò ha portato alla crescita di società specializzate nella contabilità del carbonio per monitorare le emissioni pubblicitarie, crescita dovuta in parte alla crescente pressione da parte dei regolatori per la divulgazione obbligatoria dei dati climatici aziendali. Le emissioni nella pubblicità digitale provengono principalmente dall'elettricità utilizzata dai data center e sono amplificate dalle aste digitali che sono alla base della pubblicità programmatica. Questo settore è coinvolto nella ricerca di soluzioni più ecologiche, alcune aziende stanno già adottando approcci sostenibili riducendo le emissioni pubblicitarie con successo. Tuttavia, la sfida passa anche dal limite sul quanto il settore pubblicitario possa ridurre direttamente le proprie emissioni, dato che il fattore più rilevante è il modo in cui Google e altri proprietari di data center ricevono l’elettricità. Gli inserzionisti che non riescono a raggiungere l’obiettivo zero emissioni da soli potrebbero dover fare affidamento su acquisti di “carbon offsets” (strumenti di compensazione delle emissioni di CO2) per coprire il resto. Ma si tratterebbe di una soluzione notoriamente problematica e inaffidabile, come già accaduto negli ultimi anni in altri settori ad alta intensità di emissioni, quando hanno fatto troppo affidamento su di essi nelle loro strategie di decarbonizzazione. In altre parole, sembra che ci sia ancora molta strada da fare.



Chi paga il conto?


Gli utenti dei social media sono sempre stati abituati a utilizzare le piattaforme gratuitamente, al costo di essere soggetti (tra le altre cose) al bombardamento pubblicitario. Tuttavia, negli ultimi tempi, si discute circa la possibilità di offrire piani di abbonamento premium che consentano agli utenti di accedere a funzionalità extra o ad una versione priva di annunci pubblicitari. La necessità nasce dalla crisi del mercato della pubblicità digitale, motivo per cui molte aziende sono alla ricerca di nuovi flussi di entrate. Il punto cruciale del dibattito è, sottolinea Intelligencer, se e quanto le persone sarebbe disposte a pagare per un servizio storicamente gratuito. Va segnalato che alcune piattaforme hanno già introdotto con successo abbonamenti a pagamento, da YouTube Premium a Twitter Blue. Meta ha già condiviso con le autorità di regolamentazione dell'UE una proposta per un piano di abbonamento, mentre TikTok sta testando il proprio prodotto a pagamento senza pubblicità in un mercato al di fuori degli Stati Uniti. Elon Musk, invece, non ha nascosto l’intenzione di spostare tutti gli utenti di X verso un piano che prevede un pagamento minimo mensile. È evidente che la risposta degli utenti dipenda da vari fattori: dalla piattaforma in questione alla percezione del valore aggiunto che deriverebbe dall’abbonamento.



Lezioni di (non) comunicazione


Alla Code Conference Linda Yaccarino ha dato un’ottima lezione sulla comunicazione, e su come non metterla in pratica. Axios analizza il comportamento della CEO di X all’evento, dove non è riuscita a gestire l’arrivo inaspettato di Yoel Roth, ex Head of Trust and Safety di Twitter. Alcuni esperti di comunicazione hanno sottolineato gli errori commessi dalla CEO di X: non aver saputo dare un messaggio chiaro, essersi confusa sui numeri ed essersi persa a rispondere alle affermazioni di Roth, essere sembrata impreparata a rispondere alle domande sul futuro della piattaforma. Un risultato di segno opposto, a seconda di quanto si sa, rispetto, invece, alle interviste e ai molti incontri a porte chiuse a cui Yaccarino ha partecipato nei suoi primi 100 giorni di mandato. La sua poco fortunata ospitata a Code non sarebbe, quindi, da imputare esclusivamente a un media training di scarsa qualità: nessuna comunicazione strategia, infatti, può essere di aiuto se l’azienda non sta funzionando; è quindi sempre valida la regola secondo cui non si deve comunicare alla stampa finché non si ha qualcosa di tangibile da rivelare. D’altro canto, osservano altre voci, la reputazione di Yaccarino come CEO competente è fondamentale per i prossimi capitoli dell’azienda, anche e in particolare dal punto di vista finanziario.

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