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Editoriale 137

La comunicazione sui media
26 - 02 luglio

4 luglio 2023

La stampa di Prigozhin. Il valore della comunicazione interna. Il solito Bollorè. Nuovi chatbot, nuovi guai. L’AI in campagna elettorale. Trump deve tornare su Twitter? Perché le persone non si fidano del fact-checking? Comunicazione senza cultura.

La Redazione


La stampa di Prigozhin


Yevgeny Prigozhin, il leader della brigata Wagner, ha risposto tramite un messaggio vocale di undici minuti su Telegram alle migliaia di domande della stampa sui motivi della marcia su Mosca. Prigozhin ha sottolineato come la marcia non fosse un tentativo di colpo di stato contro il presidente Vladimir Putin ma solo una protesta contro il maltrattamento della Wagner da parte dei funzionari della difesa di Putin. Come riporta Columbia Journalism Review, il leader dei mercenari ha anche paragonato la marcia al fallimento dell'avanzata delle truppe russe a Kiev l'anno scorso, vantandosi del fatto che le sue truppe avessero messo in scena “una lezione magistrale”. Prigozhin è ormai da tempo un personaggio mediatico a livello globale: un piccolo truffatore diventato venditore di hot-dog, poi ristoratore di lusso, quindi fondatore di un impero mediatico. Nel corso del suo ammutinamento, come ha osservato Alice Speri di The Intercept, Prigozhin ha abilmente raccontato al pubblico la sua storia preferita, facendo leva sulla sua esperienza ultradecennale nel campo dell’informazione. Questo, nel tempo, ha portato molti a pensare a un suo coinvolgimento nella guerra dell'informazione per conto di Putin: nel 2010, difatti, secondo il quotidiano russo indipendente Novaya Gazeta, Prigozhin avrebbe finanziato un documentario che dipingeva i manifestanti anti-Putin come marionette pagate, anche dagli Stati Uniti. Novaya Gazeta avrebbe anche collegato Prigozhin al finanziamento della Internet Research Agency, una troll farm che riportava notizie false di portata internazionale. Dallo scoppio della guerra, inoltre, il capo della Wagner ha avuto una sovraesposizione mediatica cha ha infastidito il Cremlino. Al punto che Putin ha ordinato alle agenzie di stampa statali di smettere di citare Prigozhin, a meno che si trattasse di buone notizie sul fronte ucraino.



Il valore della comunicazione interna


Le questioni relative alle condizioni di lavoro, da sempre di competenza dei team legali e delle risorse umane, stanno invadendo anche il campo delle pubbliche relazioni in virtù del danno reputazionale che potrebbero arrecare alle aziende. Come racconta Axios, la crescente popolarità dei sindacati e l'attivismo dei dipendenti hanno portato molti uffici di comunicazione a rivalutare le strategie di sensibilizzazione interna e a preparare piani di gestione delle crisi in caso di scioperi. Il modo in cui un'azienda risponde internamente a queste dinamiche determina anche l’output esterno: è un esempio la mancata reazione della Disney alla cosiddetta legislazione “Don’t say gay” della Florida, mossa che è stata vista dai dipendenti LGBTQ+ come “fuori dal mondo”, portando a uno sciopero che ha scatenato una tempesta politica. Inoltre, i consumatori sono sempre più attenti al modo in cui le compagnie trattano e comunicano con i dipendenti. Secondo Molly Levinson, CEO di The Levinson Group, l'obiettivo della comunicazione interna dovrebbe essere rafforzare i valori e la mission aziendali, aggiungendo che “deve essere una priorità assoluta per leader e manager avere una linea di comunicazione molto diretta, chiara e aperta con i dipendenti 365 giorni all'anno”. La prossima sfida è quella dell’intelligenza artificiale, quando le aziende inizieranno a implementarla nei loro flussi di lavoro per sostituire in tutto o in parte le persone.



Il solito Bollorè


Vincent Bolloré, imprenditore miliardario francese, aveva annunciato l’anno scorso il suo ritiro dal mondo dei media. Ma ciò non gli ha impedito di continuare ad essere al centro degli affari e della politica francese. Il miliardario conservatore si ritrova oggi protagonista delle vicende legate a uno dei settimanali più importanti in Francia, il Journal du Dimanche, la cui redazione è in sciopero per l’inaspettata nomina a direttore di Geoffroy Lejeune. Il motivo dello sciopero è semplice: JDD è una pubblicazione moderata e filo-istituzionale, Lejeune appartiene invece al mondo conservatore. Come riporta il Financial Times, tale episodio ha innescato un'ondata di preoccupazione da parte di politici e di celebrità sia centristi che di sinistra. L’impronta di destra di Bolloré non è nuova: alla guida di Vivendi, Bolloré ha riorganizzato lo staff del canale di notizie i-Télé che da allora è stato ribattezzato CNews, per la sua similarità con Fox News. Al momento a JDD i giornalisti non hanno speranze di poter avere la meglio contro l’imprenditore francese: la maggior parte si aspetta che Lejeune rimanga a capo del giornale e molti pensano già di licenziarsi.



Nuovi chatbot, nuovi guai


Sembra che una nuova generazione di chatbot non sia vincolata alle restrizioni imposte alle aziende come Google e OpenAI per mitigare o prevenire i rischi legati all’uso di questi strumenti. Si tratta di chatbot sviluppati non dove si è verificato il boom dell’intelligenza artificiale, che hanno nuovamente aperto il dibattito sulla libertà di espressione. Tra i più noti GPT4All e FreedomGPT, creati con un investimento minimo da programmatori freelance che sono riusciti a replicare con successo i Large Language Model (LLM) esistenti. Come racconta il New York Times, solo in pochi hanno sviluppato i modelli partendo da zero. Diversi osservatori, già preoccupati dalla capacità dei chatbot che conosciamo di generare e diffondere disinformazione, hanno subito suonato l’allarme su come questi nuovi strumenti possano incrementare tale pericolo. I programmatori sembrano non avere le stesse preoccupazioni che hanno le grandi aziende in termini di reputazione, fiducia degli investitori e dialogo con le autorità, non dovendo fare i conti con loro quando lanciano un nuovo prodotto sul mercato. “La preoccupazione è legittima: questi chatbot possono dire qualsiasi cosa se lasciati alle loro decisioni”, ha detto Oren Etzioni, professore emerito presso l'Università di Washington e ex amministratore delegato dell'Allen Institute for A.I. “Non si censureranno da soli. Quindi ora la domanda diventa: qual è una soluzione più appropriata in una società che valorizza la libertà di espressione?”. Molti esperti ritengono che la responsabilità di moderare i chatbot non dovrebbe ricadere solo sulle grandi aziende o sui singoli sviluppatori, ma dovrebbe coinvolgere una serie di attori, tra cui legislatori e le comunità online. Ma ciò solleva una questione per certi versi più complessa: chi dovrebbe decidere cosa può e non può essere detto dai chatbot? È un dibattito complesso e in continua evoluzione che ancora non sembra sfociare in una soluzione.



L’AI in campagna elettorale


I contenuti creati dagli strumenti di intelligenza artificiale stanno cambiando il modo di fare politica, minacciando le democrazie di tutto il mondo. Come riporta il New York Times, la corsa alle presidenziali statunitensi del 2024 inizia a scaldarsi e alcune campagne elettorali stanno già facendo ricorso all’AI (vedi Editoriale 134). Il Comitato nazionale repubblicano ha pubblicato un video con immagini generate artificialmente di scenari apocalittici dopo che il presidente Biden ha annunciato la sua candidatura alla rielezione, mentre il governatore della Florida Ron DeSantis (vedi Editoriale 118 ed Editoriale 132) ha pubblicato immagini false dell'ex presidente Donald Trump con Anthony Fauci, ex funzionario della sanità. In primavera il Partito Democratico ha utilizzato messaggi per la raccolta fondi redatti dall'intelligenza artificiale, scoprendo che spesso erano più efficaci nell'incoraggiare l'impegno e le donazioni rispetto a quelli scritti interamente da persone. Da qui, l’urgenza di creare nuove leggi che limitino gli annunci o i materiali generati dall’AI poiché le difese esistenti, come i regolamenti sui social media, non sono riuscite a rallentarli. Tuttavia alcuni politici vedono nell'intelligenza artificiale un modo per ridurre i costi della campagna elettorale, utilizzandola per creare risposte immediate alle domande nei dibattiti o alle critiche, o per analizzare dati che altrimenti richiederebbero analisi costose di esperti. Allo stesso tempo, questa tecnologia ha tutto il potenziale per diffondere disinformazione a un vasto pubblico: non è ancora perfetta, ma sta migliorando rapidamente.  L’utilizzo senza controllo dell’AI, secondo gli esperti, potrebbe favorire il passaggio da un clima di scetticismo che incoraggia le buone abitudini (come la ricerca di fonti affidabili) a uno scetticismo malsano secondo cui è impossibile distinguere tra verità e fake news.



Trump deve tornare su Twitter?


Ora che Elon Musk ha revocato la sospensione dell’ex presidente americano Donald Trump da Twitter, Poynter si chiede se il tycoon deciderà o meno di ributtarsi nella mischia o se continuerà ad utilizzare Truth Social da lui stesso creato. L'alleato di Trump Mike Davis, fondatore del tema legale chiamato The Article III Project, ha recentemente detto che “dal punto di vista degli affari, è molto proficuo che sia solo su Truth. Da un punto di vista politico, ha bisogno di Twitter”. Ed è qui che la battaglia per le prossime elezioni si potrebbe giocare, in primis per battere il rivale repubblicano Ron DeSantis. La storia della destra americana però può fare da monito. Non è un caso che in passato numerosi sono stati i casi di account bloccati e/o sospesi da Twitter, come quello personale di Marjorie Taylor Greene, parlamentare repubblicana dello stato della Georgia, accusata di diffondere fake news sulla pandemia. Un’azione che ha scatenato l’ira dei Repubblicani, secondo cui tali sospensioni sono uno strumento per favorire i Democratici (vedi Editoriale 64). Non si può non considerare la forza mediatica di un social network come Twitter, capace di muovere le masse influenzando anche i mercati. C’è da chiedersi se Donald Trump prima o poi decida di fare nuovamente il suo “ingresso” sulla piattaforma che, negli anni passati, è stata il vero megafono della sua propaganda, spesso spingendosi oltre: da ricordare, tra i casi più recenti, come sia stata scoperta un’ampia rete di bot, costituita da migliaia di account falsi su Twitter, schierati contro i concorrenti di Trump (vedi Editoriale 121). Tutto dipende dall’ex presidente: sarà lui stesso l’ago della bilancia per le sue sorti politiche future. Senza dimenticare come l’assenza dai social per certi versi lo abbia aiutato a riabilitare la sua immagine (vedi Editoriale 115).



Perché le persone non si fidano del fact-checking?


Un articolo di NiemanLab affronta il tema dell'efficacia del fact-checking all’interno del contesto politico. Nonostante la diffusione della disinformazione sui social media, le persone non si lasciano influenzare facilmente da chi verifica la veridicità delle notizie poiché le loro convinzioni sono guidate da un enorme numero di fattori psicologici e sociali. In un recente studio è emerso come la conoscenza da sola non elimini le convinzioni sostenute da ragioni più profonde, anzi, a volte le rafforza ancora di più. Le persone sono più propense ad ascoltare i fact-checker appartenenti al proprio schieramento politico rispetto a quelli neutrali o facenti parte dell’opposizione. In quest’ultimo caso vi è il 93% di probabilità in più di mantenere inalterate le proprie idee. L'identità partitica dunque gioca un ruolo dominante nel determinare le convinzioni delle persone, mentre il fact-checking ha un impatto relativamente limitato. Ciò solleva interrogativi sull'efficacia delle strategie di fact-checking nel contrastare la disinformazione politica. Inoltre, esistono casi in cui la verifica dei fatti spinge la persona a credere ancora di più alle informazioni false. In altre parole, il fatto di credere o meno a un fact-checker dipende in larga misura da quanto ci identifichiamo con la persona che lo effettua.



Comunicazione senza cultura


In passato, con il termine social-democrazia si intendeva un sistema politico finalizzato a mitigare gli aspetti più aspri del capitalismo. Oggi, con un leggero slittamento semantico, la social-democrazia è diventa la modalità con cui i cittadini sviluppano le proprie opinioni su temi politici, economici e culturali, con effetti concreti su consumi e preferenze elettorali. Ciò è dovuto al fatto che, scrive lavoce.info, l’uso dei social media da parte di un'ampia fetta della popolazione li ha trasformati in strumenti per plasmare l'opinione pubblica, in un Paese in cui l'84% della popolazione utilizza Internet (Digital Trend 2022). Internet che da sempre corre più veloce del legislatore, generando realtà e contenuti che spesso sfuggono alla regolamentazione. “Ma è opportuno portare gli strumenti della democrazia sul piano digitale o difenderla dalle ingerenze digitali? Il rischio è che si riproduca il loop tra azione e reazione, doping e antidoping invece di una piena integrazione nel patto sociale”. Tale contesto crea una società della comunicazione senza cultura, dove il protagonista è il rumore. Seppur con ritardi e difficoltà, l’Europa da un punto di vista legislativo sta provando a contrastare l’oligopolio delle superpotenze digitali e i rischi che derivano dall’uso degli strumenti di intelligenza artificiale: il Digital Markets Act e il Digital Services Act rappresentano un buon inizio. Ma anche rispetto all’etica, che ne dovrebbe tracciare i limiti, la tecnologia viaggia ad un’altra velocità.

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