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Editoriale 133

La comunicazione sui media
29 - 04 giugno

6 giugno 2023

Controllare la narrazione. Ritorna l’antiamericanismo stalinista. YouTube apre ai complotti. Il peso (economico) delle campagne anti Lgbtq+. In UK i media temono il MeToo. L’Opec dice no ai giornalisti. Il congresso a pagamento dei Tories.

La Redazione


Controllare la narrazione


I corrispondenti delle testate straniere che coprono l’invasione russa dell’Ucraina stanno ultimamente rischiando la revoca dei propri accrediti per violazione delle regole imposte dalle autorità locali. L’ufficio stampa dell’esercito ucraino ha messo in piedi una massiccia operazione mediatica, per raccontare gli sviluppi del conflitto, che prevede una serie di regole alle quali i giornalisti stranierei devono attenersi. A quest’ultimi dunque è permesso visitare determinate aree e intervistare funzionari dell’esercito solo dopo aver firmato un documento in cui si impegnano a rispettare le suddette regole. Tali restrizioni operano anche sul fronte interno: i giornalisti locali subiscono una pressione ancora maggiore per comunicare una visione ottimistica del conflitto. Le tensioni tra i corrispondenti stranieri e le autorità ucraine sono sempre rimaste dietro le quinte per il rischio che corrono i primi (ad esempio la revoca dell’accredito) nel non rispettare il manuale imposto. Secondo Ben Smith di Semafor, tali tensioni nascondono il loro perché altrove. I giornalisti occidentali scrivono per paesi che tendenzialmente supportano l’Ucraina, ma è anche vero che in questi paesi esistono correnti politiche che simpatizzano per la Russia di Putin. Il controllo delle autorità ucraine sarebbe finalizzato ad evitare messaggi che alimenterebbero queste correnti. Quando scoppiano le guerre tali restrizioni non rappresentano una novità e, in questo caso, non sono lontanamente paragonabili alla repressione che ha coinvolto i media russi.



Ritorna l’antiamericanismo stalinista


Quando due droni si sono schiantati sul tetto del Cremlino all'inizio di maggio, Dmitry Peskov, il portavoce del presidente russo, ha fin da subito indicato come colpevoli gli Stati Uniti, seguendo una ideologia che è da sempre lo strumento preferito del Cremlino per manipolare l’opinione pubblica e che oggi torna protagonista. Secondo questa narrazione, come spiega Foreign Affairs, la vera lotta della Russia sarebbe contro gli Stati Uniti, che vogliono distruggerla, mentre l'Ucraina, così come l'Unione europea e la NATO, sono solo satelliti che giocano un ruolo di contorno. “Kyiv fa solo quello che le viene detto”, ha spiegato infatti Peskov. Un modo di pensare la propaganda e la retorica da ritrovare nella storia del Paese. Al centro della narrazione russa infatti vi è un’ossessione verso il potere economico dell’America, che doveva essere a tutti i costi superato. Negli ultimi anni di Stalin, l'antiamericanismo divenne il pilastro della propaganda sovietica, e restò tale anche dopo il crollo dell'Unione Sovietica nel 1991. Da quando Putin salì al potere, la macchina della disinformazione del Cremlino ha iniziato a operare in modo sempre più efficace, nascondendosi anche attraverso i social media e permeando la società americana. Lo abbiamo visto nel caso delle interferenze russe nelle elezioni statunitensi. Un altro esempio è il caso di Linda Sarsour, l’attivista americano-palestinese che nel gennaio 2017 ha guidato a Washington la Women’s March contro il presidente Trump. All’evento hanno presenziato, seppure a distanza, alcune organizzazioni vicine al governo russo, che da San Pietroburgo hanno iniziato a postare sul web contenuti critici verso la manifestazione, usando delle fittizie identità americane (vedi Editoriale 99). Oggi, individuare un avversario “onnipotente” serve al regime di Putin a giustificare (nuovamente) una guerra estremamente costosa che dura già da più di un anno e sembra improbabile che finisca presto. La presenza di un nemico esterno così forte, inoltre, giustifica anche la repressione dei nemici interni: dai politici ai media, dai professori agli attivisti.



YouTube apre ai complotti


In vista delle prossime elezioni americane, Axios racconta che YouTube ha preso una decisione che ha fatto molto discutere. Tramite un post pubblicato sulla sua piattaforma, l’azienda ha comunicato che non rimuoverà più i contenuti complottisti – relativi alla presunta vittoria di Donald Trump – sulle elezioni presidenziali del 2020. Dopo migliaia di video rimossi, “we recognized it was time to reevaluate the effects of this policy in today's changed landscape”. Oggi il rischio di violenze, sempre secondo YouTube, è inferiore a quello di limitare il dibattito politico. Si tratta di una decisione apparentemente ponderata ma non sono stati forniti i dati e i fattori sulla quale poggia, anche se ulteriori dettagli verranno comunicati nei prossimi mesi. Da segnalare che tale norma non intaccherà le altre regole sulla disinformazione di YouTube. Con l'avvicinarsi di un evento politico così importante, all’interno delle piattaforme social si respira un’aria sempre più pesante. Democratici e Repubblicani concordano sull’inadeguatezza dei tentatavi di moderazione dei contenuti da parte delle piattaforme stesse e sulla necessità di intervenire sulla Section 230 del Communications Decency Act, che le protegge (con alcune eccezioni) dalla responsabilità per i contenuti pubblicati dagli utenti. Tuttavia, i due fronti avrebbero linee di intervento diametralmente opposte. E questo blocca l’attività del Congresso, che potrebbe trovare ispirazione (così come gli altri stati) da quanto realizzato in termini legislativi in Europa. Il Digital Services Act dell'UEentrerà in vigore il prossimo anno e l’Online Safety Bill, nel Regno Unito, dovrebbe essere emanato entro il 2023: contrariamente da quanto accade in America, queste iniziative impongono alle piattaforme una due diligence per ridurre o eliminare i contenuti considerati “dannosi”. Come riporta The Economist, si tratta in generale di un compito arduo, più si inaspriscono i regolamenti e più queste aziende saranno incentivante ad abbondonare lo stato in cui entrano in vigore.



Il peso (economico) delle campagne anti Lgbtq+


Il mese del Pride si apre negli Stati Uniti tra polemiche e campagne di boicottaggio. Come riporta Semafor il marketing“Lgbtq-friendly” sembra non essere stato così efficace e noti brand come Bud Light e Target si sono ritrovati al centro delle proteste  dei repubblicani, primo fra tutti Ron DeSantis (vedi Editoriale 118 ed Editoriale 132). I conservatori sembrano vedere nel mese del Pride di quest'anno l'opportunità per screditare e attaccare le aziende che si fanno promotrici dei valori della comunità Lgbtq+, soprattutto per i prodotti destinati ai bambini. L'obiettivo è quello di invertire la rotta, allontanarsi da un mercato che cerca di essere più inclusivo e “rendere la bandiera arcobaleno assolutamente tossica”, come ha detto la scorsa settimana il conduttore del podcast Daily Wire Michael Knowles agli ascoltatori. Molti repubblicani hanno intrapreso questa missione dando vita a campagne di boicottaggio che hanno assunto i toni di una vera e propria guerra culturale combattuta nell’ambito del marketing aziendale. Perché una reazione così violenta ora? Secondo Jon Schweppe, direttore politico dell’American Principles Project, il dibattito è cambiato quando il movimento per i diritti Lgbtq+ si è concentrato maggiormente sui diritti dei transgender e sulla loro visibilità. Dunque molti brand si sono tirati indietro, temendo di allontanarsi dal loro pubblico di riferimento, anche soprattutto dopo le proteste e le dichiarazioni di DeSantis. In questo contesto i media mainstream, come evidenzia The Guardian, stanno al gioco, pubblicando storie “ingenue” che non riescono a identificare ciò che sta realmente accadendo. Nel frattempo, i media di destra diffamano le persone trans, riducendole a caricature e permettendo alla propaganda di diffondersi. Tutto questo spiana la strada a una tendenza molto più dannosa: leggi e regolamenti che cercano di punire le persone Lgbtq+ per aver cercato di vivere la loro vita in pace, di praticare sport, di usare bagni coerenti con la loro identità di genere e di ricevere cure mediche adeguate, anche da adulti. Mentre il mese del Pride continua tra manifestazioni di solidarietà e parate arcobaleno, Target nasconde i prodotti a tema Pride, Bud Light registra perdite di quasi 5 miliardi di dollari e Musk ne approfitta per diventare il nuovo idolo dell’ultradestra americana.



In UK i media temono il MeToo


Quest'inverno, una delle reporter investigative di punta del Financial Times, Madison Marriage, aveva uno scoop potenzialmente esplosivo che riguardava un altro giornale: un importante editorialista di sinistra, Nick Cohen, si era dimesso dal Guardian - ufficialmente per “ragioni di salute” - e la Marriage aveva le prove che il suo allontanamento fosse stato scaturito da anni di avance sessuali indesiderate nei confronti di alcune giornaliste. Ma la sua inchiesta su Cohen, che sperava potesse dare il via a un'indagine più ampia nei media britannici, non è mai stata pubblicata probabilmente per volontà della direttrice del Financial Times, Roula Khalaf, convinta che la storia non fosse “degna” del quotidiano britannico. Come riporta The New York Times, questa vicenda apre una finestra sul complicato rapporto dei media britannici con il movimento #MeToo. Il vero ostacolo per i media, nel Regno Unito, è rappresentato dalle severe leggi sulla diffamazione, motivo per cui molte storie di molestie non vengono raccontate o vengono contestate. Nel luglio 2016, ad esempio, il Daily Mail scriveva che un tribunale aveva concesso un ordine restrittivo per violenza domestica contro un ex dirigente del Financial Times, Ben Hughes. L’articolo, poi, è scomparso da internet senza alcuna spiegazione. Nonostante non sia stata pubblicata, l’inchiesta della Marriage è sulla bocca di tutti e la sua veridicità sembra essere confermata anche da ex colleghi di Cohen secondo cui il giornale avrebbe raggiunto un accordo segreto per le dimissioni e la riservatezza.



L’Opec dice no ai giornalisti


Secondo quanto riportato dal Financial Times, l'Opec – Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio - avrebbe impedito ai giornalisti di importanti testate finanziarie tra cui Bloomberg, Wall Street Journal e Reuters, di partecipare al suo incontro che si è tenuto a Vienna durante il primo weekend di giugno. Una mossa che, secondo alcuni, è stata dettata dall'Arabia Saudita e in particolare dal ministro dell'Energia, il principe Abdulaziz bin Salman, che ha subito crescenti pressioni per aumentare il prezzo del greggio, la linfa economica del regno. Il divieto di accesso ai media è insolito per l'Opec, dato che i risultati di questi incontri possono potenzialmente influenzare i prezzi del petrolio e i mercati finanziari di tutto il mondo, soprattutto in un momento in cui l'economia globale sta lottando contro l'inflazione. La copertura stampa dell'Opec è notoriamente caotica, con i ministri inclini a rilasciare commenti che influenzano il mercato ai giornalisti accampati nella hall degli hotel di lusso prima del meeting. A volte, in mancanza di una comunicazione ufficiale su eventuali accordi, i ministri vengono inseguiti per le strade di Vienna dai giornalisti. Contattata da Reuters, l’Opec non ha fornito alcun commento al riguardo.



Il congresso a pagamento dei Tories


Per il Partito Conservatore si tratta di una misura volta a evitare sprechi, mentre la stampa britannica la vede come un precedente antidemocratico. Scrive il Guardian che il congresso annuale dei Tories, tradizionalmente a ingresso gratuito e di norma frequentato da centinaia di giornalisti, questo autunno rischia di trovarsi di fronte a un boicottaggio su larga scala. Il motivo è la decisione di ammettere i giornalisti solo dietro il pagamento di una “tassa” di 137 sterline a persona. Organismi del settore come News Media Association, Society of Editors, News Media Coalition e Foreign Press Association hanno sottolineato in un comunicato congiunto l’importanza pubblica e politica dell’evento, in nome della quale i giornalisti non dovrebbero essere ostacolati in alcun modo a partecipare; inoltre, hanno aggiunto, il congresso, se coperto mediaticamente da un giornalismo obiettivo rappresenterebbe un’occasione di visibilità per la democrazia britannica. Il partito si è giustificato appellandosi al pragmatismo: in un’edizione passata, sostiene un portavoce, alcune migliaia di giornalisti che avevano chiesto gli accrediti stampa non li hanno poi ritirati, creando un enorme spreco di carta e plastica; ancora, in anni precedenti i controlli di sicurezza della polizia per i non partecipanti sono costati al partito decine di migliaia di sterline. La discussione è sorta dopo che la segretaria di Stato per la cultura e i media Lucy Frazer ha affermato che il governo sta lavorando per aumentare la libertà di stampae mettere i giornalisti nelle condizioni di lavorare in maniera efficace. Questi ultimi, però, a giudicare dalle reazioni, sembrano tutt’altro che concordi con queste parole.

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