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Editoriale 127

La comunicazione sui media
17 - 23 aprile

25 aprile 2023

Una strategia out of the box. Quel genio mediatico. Il patriottismo degli influencer ucraini. Pechino dice no ai libri americani. Buoni vecchi canali di comunicazione. Nuove forme di scetticismo climatico. Cosa è il giornalismo per gli emarginati? Mastodon, pro e contro. Braccio di ferro tra Meta e disinformazione.

La Redazione


Una strategia out of the box


Nei suoi primi due anni da presidente, Biden ha rilasciato 54 interviste. Preso singolarmente il dato non dice nulla, ma se lo si paragona con Obama (275) e Trump (202) allora dietro quel numero si intravede una precisa strategia, ossia tenere i media a debita distanza. È una scommessa, racconta il New York Times, fatta dagli strateghi di Biden per proteggerlo da domande le cui risposte hanno spesso causato passi falsi e dure critiche. Aggirare i media tradizionali servirebbe a connettersi con il pubblico “dove si trova”, senza i filtri dei giornalisti. “Il nostro obiettivo è raggiungere il popolo americano ovunque e in qualsiasi modo, e non solo attraverso la sala riunioni o i notiziari di Washington”, ha affermato Ben LaBolt, Responsabile Comunicazione della Casa Bianca. È una strategia che si traduce in conversazioni a basso rischio con celebrità e influencer (vedi Editoriale 125) e brevi interazioni con giornalisti, ai quali non sempre risponde. Da quando è entrato in carica, Biden ha comunicato con il pubblico in modi diversi e ha sempre evitato di rilasciare interviste ai giornali mainstream. Dietro questa strategia mediatica potrebbe nascondersi la sempre minore influenza dei media tradizionali e l’intenzione di raggiungere un pubblico più giovane e “amico” che vive nei social media. Sarà interessante vedere i risultati di questa strategia, specialmente alla luce dell’annuncio ufficiale della candidatura alle elezioni del 2024.



Quel genio mediatico


Elon Musk ha sempre catalizzato l’attenzione dei media su di sé, mostrando come la stampa sia incapace di resistere a riportare ogni sua singola opinione – o battuta. Come riportato da Politico, la maggior parte degli annunci dell’imprenditore sudafricano non si sono concretizzati, ma nonostante ciò i giornalisti continuano a parlarne. Musk offre avanzi e i giornalisti li trasformano in un banchetto. Sfrutta consapevolmente la fragilità e l'appetito dei media, creando rumore su di lui e sulle sue imprese, assicurandosi pubblicità gratuita. Politico ha anche parlato di come Musk abbia mostrato la sua visione conservatrice del progresso in un’intervista rilasciata a Tucker Carlson, ex star di Fox News. La conversazione si è incentrata sulle sue opinioni allarmistiche secondo cui l'intelligenza artificiale potrebbe distruggere l'umanità. Musk non è anti-AI: ha appena annunciato la fondazione della sua nuova società – X.AI – per competerecon OpenAI e Microsoft, che considera troppo “svegli” e spericolati dal punto di vista dello sviluppo. Durante l'intervista, Musk ha anche parlato a Carlson della sua ormai defunta amicizia con Larry Page, il co-fondatore di Google, raccontando come durante una telefonata egli non prendesse sul serio la sicurezza dell’AI, ma addirittura sembrava desiderare una sorta di super-intelligenza artificiale. La sua visione dell'AI come minaccia esistenziale, per quanto speculativa possa essere, lo porta alla stessa conclusione dei suoi più feroci critici a sinistra: che il governo dovrebbe intervenire per guidare il progresso tecnologico in modo favorevole ai valori umani. Musk non è reazionario e il progresso non è dominio esclusivo della sinistra. Ha un insieme molto distinto di convinzioni sociali e culturali che cerca di propagare attraverso i suoi vari sforzi tecnologici e commerciali. Quando le convinzioni in questione erano, ad esempio, l'importanza dell'energia pulita, Musk era un eroe per i progressisti. Da quando ha acquistato Twitter, è un cattivo. Ma non sembra interessargli particolarmente.



Il patriottismo degli influencer ucraini


La guerra in Ucraina ha generato un processo di “de-russificazione” del Paese, al centro del quale si trova la lingua parlata dal popolo ucraino. Anche dopo l'indipendenza nel 1991, il russo è rimasto ampiamente parlato, e Mosca, dopo aver conquistato parte del territorio ucraino, ha spinto gli insegnanti a usare il russo come lingua principale. Tale invasione ha visto gli influencer ucraini abbandonare i loro cavalli di battaglia e la lingua russa per creare contenuti in ucraino a supporto dello sforzo bellico del Paese. Una mossa nobile ma, come sottolinea il New York Times, dall’impatto economico devastante: per le star dei social media, non trattare gli argomenti che le hanno rese famose e cambiare lingua potrebbe significare perdere pubblico e dunque potere contrattuale. Da un'analisi di AIR Media-Tech su 20 importanti account YouTube ucraini è emerso che il reddito complessivo di coloro che hanno cambiato lingua (perdendo migliaia di visualizzazioni) è diminuito in media del 24% nel 2022 rispetto a un anno prima. Dall’alto lato, la guerra ha dato a molti influencer (poco seguiti) un nuovo scopo e, in alcuni casi, un pubblico più ampio.



Pechino dice no ai libri americani


Mentre le tensioni geopolitiche tra Cina e Stati Uniti si acuiscono, le case editrici cinesi stanno pubblicando un numero sempre minore di libri di autori statunitensi, a riprova del fatto che Pechino sta cercando di limitare l’influenza americana sui suoi cittadini. Come riporta il Financial Times, i dati rivelano che lo scorso anno le case editrici cinesi hanno pubblicato 1.960 libri classificati come “relativi agli Stati Uniti”, con un calo di oltre la metà rispetto al 2018. Calo dovuto al fatto che il dipartimento centrale della propaganda del Partito Comunista ha sospeso o comunque ritardato l'approvazione di molti autori statunitensi, come ad esempio Michael Lewis: il suo libro, “The Premonition: A Pandemic Story”, un bestseller in Occidente, non è riuscito a trovare un editore in Cina. Al contrario i dati rivelano che l'ente regolatore nel 2022 ha cercato di promuovere i titoli critici nei confronti degli Stati Uniti, con un netto distacco rispetto agli anni precedenti in cui le pubblicazioni sulla cultura e il turismo americano erano invece in cima alle raccomandazioni. Come ha dichiarato James Wu, un editore di Pechino che ha lavorato con Citic Press Group, il più grande editore cinese di libri di economia e saggistica, a metà degli anni 2010 le aziende acquisivano i diritti di pubblicazione in cinese di quasi tutti i libri presenti nella classifica dei best seller del New York Times. Ora gli editori sono diventati diffidenti anche nei confronti degli autori cinesi legati agli Stati Uniti. Anche i libri non politici sono vittime di una censura autoimposta. Uno studioso di Shanghai ha dichiarato di non essere riuscito a trovare un editore locale disposto ad accettare il suo libro sull'industria dei servizi finanziari statunitensi. Si tratta di un libro tecnico, ma a quanto pare le case editrici nazionali rifiutano di pubblicarlo per paura che il regolatore non apprezzi gli argomenti trattati.



Buoni vecchi canali di comunicazione


Hanno fatto discutere le parole della segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, durante una conferenza alla Johns Hopkins riguardo la relazione tra gli Stati Uniti e la Cina. Yellen, come spiega Formiche, ha affermato che il canale di comunicazione tra le due superpotenze deve migliorare per evitare possibili malintesi e tensioni che potrebbero incidere negativamente sulle loro economie ed il mondo intero. Secondo un’analisi di Axios Macro, l’idea sarebbe ricreare alcuni dei canali di comunicazione presenti nel “Dialogo economico strategico” elaborato tra il 2006 e il 2008 dal segretario al Tesoro Hank Paulson. Intenti e obiettivi più che mai nobili, che però per alcuni non trovano corrispettivo nelle azioni del Dragone, la cui propaganda anti-americana è sempre più intensa e pervasiva. Basti pensare al recente episodio in cui è stata scoperta sia una stazione di polizia segreta a New York City, nata per “molestare” i critici della Cina, sia un gruppo di funzionari cinesi che – sempre in America - ha creato migliaia di account fake sui social media per screditare le politiche americane.



Nuove forme di scetticismo climatico


L’avversario principale della crisi climatica non è più il negazionismo, ma il qualunquismo. Ne scrive NiemanLab riportando uno studio condotto dal ricercatore del Reuters Institute James Painter e da alcuni suoi colleghi condotto su una trentina di programmi televisivi – la fonte d’informazione privilegiata in fatto di cambiamento climatico – trasmessi su venti canali in Australia, Brasile, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti. Il primo dato a emergere è stato il calo dello scetticismo nei confronti della scienza nei canali mainstream, anche in Paesi che rappresentavano delle roccaforti storiche in questo senso. Ciò però non significa, proseguono gli autori dello studio, che fenomeni riconosciuti a livello quasi universale dalla comunità scientifica abbiano perso detrattori. La seconda osservazione che emerge, infatti, riguarda il dilagare di nuove forme di scetticismo: c’è chi sottolinea come altri Paesi – Cina in primis – debbano essere chiamati a fare molto di più dell’Occidente, chi invoca i costi della lotta al fenomeno e, ancora, chi denuncia la violazione delle libertà civili dovuta alle azioni contro il clima. Un cambiamento non da poco per un argomento tanto urgente quanto delicato da comunicare (vedi Editoriale 113) che sta prendendo piede, osservano Painter e colleghi, su un medium, quello televisivo, che non è solo una fonte di informazione privilegiata su tema, ma anche un mezzo che esercita un’influenza notevole sia sull’agenda politica sia sui comportamenti degli spettatori. La dialettica tra le parti si fa più raffinata – con argomentazioni contro le net zero policies più convincenti per una certa fetta di opinione pubblica – mentre il tempo per agire si assottiglia inesorabilmente.



Cosa è il giornalismo per gli emarginati?


A partire da analisi e focus group che hanno coinvolto persone provenienti dal Brasile, India, Regno Unito e Stati Uniti, il Reuters Institute ha presentato un rapporto dettagliato che indaga la percezione del giornalismo da parte di gruppi notoriamente sottorappresentati sulla stampa e, di conseguenza, culturalmente emarginati. L’analisi si concentra in particolare sul modo in cui le differenze di razza, casta, religione, classe e luogo possono determinare diverse opinioni, aspettative e livelli di fiducia delle persone nei confronti del giornalismo. La rappresentazione e narrazione inadeguata e ingannevole di specifici gruppi culturali può infatti avere impatti notevoli sulla vita delle persone appartenenti a comunità emarginate. Ciò crea un distacco ed una frattura con il mondo del giornalismo, visto come istituzione di potere e privilegiata, distante dalle realtà che vogliono provare a raccontare, confinandole così ai margini non solo dell’informazione ma, a volte, anche della storia. Le persone coinvolte nelle interviste hanno potuto così esprimere le loro preoccupazioni e criticità nei confronti del giornalismo, proponendo specifiche azioni che possano aiutare a superare questa inclinazione: l'eliminazione di pregiudizi e una copertura più trasparente e fattuale; un racconto sempre più completo delle storie; la diversificazione del personale della redazione e il miglioramento della formazione dei giornalisti. Un maggiore ascolto e conoscenza delle comunità e cultura che si raccontano possono essere infatti le chiavi di svolta per un’informazione maggiormente inclusiva. Una narrazione poco imparziale e approfondita può generare una forte polarizzazione tra le persone e , alla luce di ciò, è bene che il giornalismo individui i migliori modi per ristabilire la fiducia con un pubblico ampio e variegato proponendo una migliore rappresentazione delle comunità emarginate così da correggere la disparità narrativa e storica.



Mastodon, pro e contro


Dopo l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk molti utenti hanno deciso di fuggire su Mastodon, un social media alternativo progettato dal programmatore tedesco Eugen Rochko, che ha il pregio di essere indipendente. Come spiega The Guardian, Mastodon, nato nel 2016, è stato creato per resistere alle acquisizioni da parte di miliardari: è decentralizzato ovvero costituito da una rete di migliaia di server gestiti in modo autonomo, ognuno con i propri moderatori e utenti, che possono interagire con i post degli altri, chiamati “toot”, utilizzando un protocollo aperto chiamato ActivityPub. Il social network può essere considerato una valida alternativa a Twitter, ma nasconde anche alcuni aspetti negativi. Innanzitutto Mastodon, che registra 1,2 milioni di utenti attivi mensili (erano saliti a 2,6 quando Musk acquistò Twitter), è molto apprezzato perché non ci sono contenuti che diventano immediatamente virali e non esistono hashtag globali. I server possono essere facilmente resi privati e gli amministratori possono combattere i troll. C'è anche una funzione che permette di inserire prima di alcuni post un avviso di contenuto, cosa che gli utenti sono incoraggiati a fare per i temi sensibili. I contenuti non sono vincolati a logiche algoritmiche, come sottolinea il disegnatore J. Logan Carey, e non si è inondati da inserzioni pubblicitarie, perché le dimensioni finora ridotte del social media hanno allontanato gli operatori del marketing digitale. Tuttavia, risulta più difficoltoso diffondere su larga scala post importanti, come hanno tentato di fare alcuni attivisti per i diritti umani che, stanchi delle politiche opache di Twitter e di perdere i loro account quando un governo decide di eliminarli, hanno provato a rifugiarsi su Mastodon rimanendo, però, delusi. Inoltre, alcuni utenti tra cui Andrea Leanerd, conduttrice di un podcast sul clima, hanno trovato il social limitante e poco intuitivo. Nel caso di Johnatan Flowers, professore assistente di filosofia alla California State University Northridge, l’approdo su Mastodon è stato addirittura disastroso: dopo aver postato alcune osservazioni sulla politica razziale della piattaforma, gli utenti gli hanno chiesto di nascondere i post dietro un avviso di contenuto. Quando ha rifiutato di usare le avvertenze sui contenuti, ha ricevuto un torrente di insulti razzisti nella sua casella di posta. Attualmente l’organizzazione non-profit Mastodon si finanzia attraverso le donazioni su Patreon, che ammontano a circa 32.000 dollari al mese. Rochko ha anche rifiutato le offerte di investimento della Silicon Valley del valore di centinaia di migliaia di dollari, sostenendo che avrebbero compromesso il suo progetto. Anche se molti social media si stanno muovendo nella stessa direzione di Mastodon resta il fatto che la nostra società sia incapace di investire in alternative migliori.


Braccio di ferro tra Meta e disinformazione

Alla fine dello scorso anno Meta ha eliminato alcune etichette sui contenuti relativi al Covid-19 pubblicati sulle sue piattaforme che, per gran parte della pandemia, avevano indirizzato gli utenti a una sezione più approfondita sull’argomento. Come svelato dalla CNN, questo è avvenuto dopo la pubblicazione di un rapporto del consiglio di sorveglianza della società che ha reso noto come tali etichette siano inefficaci a cambiare atteggiamenti o fermare la diffusione della disinformazione. Facebook, in particolare, aveva introdotto le etichette all'inizio del 2021, dopo essere stato criticato per la diffusione della disinformazione sul Covid-19 durante il primo anno della pandemia. Tale episodio evidenzia le difficoltà incontrate dalle piattaforme social nella lotta alla disinformazione e potrebbe sollevare questioni più ampie sull'efficacia di tutte le misure sinora adottate. Questa notizia, tra l’altro, giunge in un momento in cui la censura cinese sta silenziosamente riscrivendo la storia del Covid-19.

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