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Editoriale 122

La comunicazione sui media
13 - 19 marzo

21 marzo 2023

Racconto di una crisi finanziaria. L’arma più potente è l’advocacy. Il peso degli influencer pro-Trump. Quella sfiducia che fa bene ai media. La stampa americana è rimasta in Iraq. La speranza digitale del giornalismo venezuelano. I treni del dissenso. I limiti aziendali dell’IA.

La Redazione


Racconto di una crisi finanziaria


Il fallimento della Silicon Valley Bank si può raccontare in tanti modi, ma non in chiave politica. Questa la tesi sostenuta da Columbia Journalism Review, che sottolinea come alcuni giornalisti abbiano trascurato i seri problemi economici che questo evento ha comportato per concentrarsi sulle reazioni della politica. Semafor, per esempio, ha presentato la notizia con questo template: come la vedono i repubblicani da un lato e, dall’altro, i democratici. Non è la prima volta, prosegue CJR, che il giornalismo americano mostra questa tendenza: con l’esordio della pandemia di Covid-19, per esempio, la disinformazione sanitaria è stata amplificata dalla stampa di destra. Anche il fallimento di una banca è un affare serio, e politicizzarlo contribuisce spesso alla banalizzazione di problemi economici e legislativi. E la complessità, in questo quadro, non manca: dopo il fallimento di SVB ci sono state la chiusura forzata di Signature Bank e, in Europa, la delicatissima questione di Credit Suisse. In tutto questo emerge anche un’altra debolezza dei media, soprattutto quelli economici: la difficoltà nel prevedere eventi di questo tipo, non imputabile esclusivamente a una sorta di prudenza, perlomeno secondo Howard R. Gold. Quest’ultimo, infatti, a 10 anni dalla crisi del 2008 si è posto questa domanda: “Se i giornalisti economici si sono persi parti importanti della storia prima dell’avvento della crisi e non hanno sentito la necessità di un cambio radicale, con quale probabilità prevederanno la prossima?”. Complessità e, come ricorda Andrew Ross Sorkin, il tentativo di contestualizzare quello che sta accadendo quando ci si trova a dare questo genere di notizie sono spunti su cui riflettere per raccontare eventi complessi in modo diverso e più professionale.



L’arma più potente è l’advocacy


Nonostante la disinformazione diffusa dal Cremlino, gli Stati Uniti potrebbero vincere la “guerra dell’informazione”. Di fronte alle aggressioni militari, già compiute o minacciate, gli USA possono ancora difendere il valore della libertà attraverso l’advocacy: la divulgazione di verità e fatti al fine di persuadere i cittadini degli stati esteri. Come ricorda The Wall Street Journal, la U.S. Information Agency ha già giocato un ruolo chiave nella vittoria della Guerra Fredda e, ora, secondo i giornalisti Joe Lieberman and Gordon Humphrey, dovrebbe intensificare la sua attività cercando di contrastare in termini di budget, creatività e tecnologia una propaganda russa sempre meglio organizzata. Per farlo, occorre una esperta di comunicazione e pubbliche relazioni come Elizabeth Allen, che svolge di fatto le funzioni di sottosegretario di Stato per la Diplomazia e gli Affari Pubblici incaricato per legge di “individuare e contrastare la disinformazione che proviene dall’estero” e di “difendere i valori e le politiche degli Stati Uniti”. Secondo la Fondazione Heritage, un esempio perfetto di advocacy che dovrebbe essere maggiormente finanziata è il video recentemente prodotto, intitolato “To the People of Russia”, in cui si elogia il popolo russo e lo si esorta a cercare la pace. Diffuso su Telegram, il video è stato criticato da Dmitry Medvedev, ex presidente russo e ora vicepresidente del Consiglio di sicurezza, che probabilmente teme una rivolta popolare sulla scia di quella iraniana. L’ufficio del sottosegretario di Stato per la Diplomazia e gli Affari Pubblici non vede un responsabile fisso da 5 anni e la conferma di Allen aspetta ora solo il voto del Senato.



Il peso degli influencer pro-Trump


Il dibattito sulle primarie del Partito repubblicano degli Stati Uniti si sta spostando sempre di più sui social. Secondo un’indagine condotta da due giornalisti di Semafor, gli elettori di destra prestano attenzione agli influencer conservatori, al di fuori di ciò che Ron DeSantis (vedi Editoriale 120 ed Editoriale 121) definisce “legacy media”.  C’è Alex Bruesewitz, con più di 307.000 follower su Twitter, più di 30.000 sul social network di Trump Truth, che promuove a tempo pieno l'ex presidente e critica i sostenitori del governatore della Florida. Jack Posobiec, uno dei più citati, è quello che i progressisti associano principalmente alla teoria del complotto del Pizzagate del 2016 (secondo cui alcuni membri del Partito democratico erano collegati a un traffico di esseri umani ad opera della pizzeria Comet Ping Pong di Washington), e che i repubblicani identificano come una nuova voce influente. Ha più di 2 milioni di follower su Twitter, quasi sei volte più di National Review, e più di 1 milione su Truth. John Cardillo (oltre 309.000 follower su Twitter) è stato spesso nominato come l’influencer di punta pro-DeSantis, l’unico probabilmente in grado di ribaltare la narrazione politica a favore del governatore della Florida. Anche Steve Bannon (vedi Editoriale 68) viene percepito dai repubblicani come una fonte autorevole di destra in grado di individuare i nemici di Trump grazie al podcast “War Room” su Real America's Voice. Così, mentre gli elettori repubblicani non si preoccupano affatto della copertura politica dei media mainstream e prestano maggiore attenzione ai social, sembra che Trump, almeno tra gli influencer, abbia la meglio.



Quella sfiducia che fa bene ai media


Negli Stati Uniti molti criticano i media, spesso senza motivi concreti che giustifichino l’attacco. Come riporta NiemanLab, la quantità di critiche agli organi di informazione - soprattutto da parte dei politici - ha intensificato l'erosione della fiducia nel giornalismo americano. Storicamente, attaccare il giornalismo - anche quello di qualità - fornisce ai politici una rapida spinta nei sondaggi/risultati elettorali: questo poiché hanno scoperto che attaccare è il modo più rapido ed efficace per evitare di discutere di realtà a loro sfavorevoli. Oggi, secondo un sondaggio pubblicato a febbraio da Gallup e Knight Foundation sulla perdita di fiducia nei media, solo il 26% degli americani ha un'opinione favorevole dei media; questa bassa percentuale è dovuta anche a scandali che si sono registrati nel tempo nelle sedi del New York Times, di Fox News e di NBC News. Un dibattito aperto sull'etica del giornalismo, comunque, è un segnale di sana governance. Questo contesto, infatti, facilita lo scambio di opinioni diverse e incoraggia l'analisi critica della realtà: fattore che può essere visto come un segno di salute democratica. Proprio per questo motivo, una democrazia duratura incoraggerà piuttosto che scoraggiare le critiche verso i media: lo stesso rapporto della Gallup e Knight Foundation ha concluso che “la sfiducia nell'informazione non è necessariamente negativa” e che “un certo scetticismo può portare benefici nel mondo mediatico di oggi”.



La stampa americana è rimasta in Iraq


Vent'anni fa, l'amministrazione Bush invase l'Iraq per rovesciare il governo di Saddam Hussein ed eliminare le armi di distruzione di massa che i funzionari affermavano fossero in mani irachene. Come scritto da John Walcott su Foreign Affairs, per convincere gli americani a sostenere una guerra contro un paese che non aveva attaccato gli Stati Uniti, era necessario che l'amministrazione raccontasse una storia convincente per cui la guerra fosse necessaria. E per fare questo aveva bisogno della stampa. Al tempo, John Walcott era il capo dell'ufficio di Knight Ridder a Washington e seguiva le notizie sulla sicurezza nazionale. Quando l'amministrazione Bush ha iniziato a sostenere l'invasione dell'Iraq, troppi giornalisti – presi dal fervore patriottico successivo all'11 settembre – hanno lasciato che la versione del governo restasse incontrastata. La redazione di Knight Ridder, invece, ha iniziato a contrapporsi alle affermazioni dell’amministrazione Bush. Una cosa che distingueva l’attività di Knight Ridder era la modalità di ricerca delle fonti: non gli alti funzionari di Washington, ma esperti e scienziati all'interno e all'esterno della Beltway e ufficiali molto vicini all'intelligence. Un tale approccio avrebbe aiutato anche i politici statunitensi. Le guerre fallite in Afghanistan e Iraq mostrano cosa succede quando i giornalisti diventano meri esecutori del governo. Sfortunatamente, 20 anni dopo, non sembra che la stampa di Washington abbia imparato la lezione.  Alcuni giornali e riviste, tra cui il New York Times, continuano a svolgere un lavoro encomiabile collaborando con gruppi specializzati in reportage investigativi, ma i giornalisti nel paese continuano a diminuire soprattutto a livello locale, regionale e internazionale. Oltre a erodere la fiducia del pubblico nei media, la diminuzione dei giornalisti locali che si occupano degli Stati Uniti sta privando i giovani della possibilità di imparare dai senatori del giornalismo le lezioni dell'Afghanistan e dell'Iraq: per conoscere la situazione della criminalità locale bisogna chiedere ai residenti e ai poliziotti di quartiere, non al capo della polizia o al sindaco.



La speranza digitale del giornalismo venezuelano


La recente comparsa dei deepfake e dei contenuti generati dall'intelligenza artificiale nel panorama mediatico venezuelano rappresenta una nuova frontiera nella propaganda e nelle campagne di disinformazione del governo di Maduro. L’utilizzo di questo nuovo strumento, realizzato - come spiegato dal Financial Times - attraverso la tecnologia di deep learning di “Synthesia”, genera serie preoccupazioni sull’influenza del governo venezuelano nel contesto mediatico e, dunque, nella popolazione, dotata di scarso accesso ad informazioni e notizie indipendenti e attendibili. Secondo quanto riportato da un articolo del Reuters Insitute, tra il 2013 e il 2022 più di 60 giornali venezuelani hanno infatti cessato la loro attività, mentre, tra il 2003 e il 2022, almeno 285 emittenti radiofoniche sono state chiuse dalla Commissione nazionale delle telecomunicazioni. Minacciati dall’ampia censura e dalle numerose limitazioni governative al dissenso e alla libertà di parola, i media indipendenti venezuelani si sono trovati costretti ad affidare la propria sopravvivenza ad internet e ad un sostentamento economico derivante da donazioni, fondi e campagne di crowdfunding. “La speranza è nel digitale” ha affermato Arcila Calderón, professore associato presso l'Università di Salamanca, il quale ha evidenziato che proprio attraverso l’informazione online è possibile far progredire il giornalismo indipendente e raggiungere così tutte quelle persone che cercando informazioni affidabili e veritiere non controllate dalla propaganda di Maduro. Dal canto suo, il Governo si è attivato anche sulla rete per ostacolare l’informazione libera a cui lavorano giornalisti e giornali indipendenti, impegnati anche a sviluppare e promuovere nuove alleanze e collaborazioni, come fatto con la recente “Alianza ProPeriodismo”, il cui obiettivo è favorire le connessioni per promuovere la difesa del giornalismo nel Paese. Ma se da un lato l’informazione indipendente trova nel digitale la sua sopravvivenza, la diffusione online di contenuti falsi e deepfake realizzati dal governo può minacciare questi media e quindi il futuro stesso del giornalismo venezuelano.



I treni del dissenso


Come riporta Columbia Journalism Review, a seguito del disastro ferroviario avvenuto in Grecia, i politici del Paese hanno inizialmente attribuito l'incidente a un errore umano creando una narrazione che è stata sostenuta dai principali organi di stampa la cui copertura è spesso favorevole al partito di governo. Ma quando la rabbia dell'opinione pubblica è aumentata, il governo ha fatto in parte un'inversione di rotta e Mitsotakis, il primo ministro, si è scusato in un post su Facebook, riconoscendo che l'incidente non sarebbe potuto accadere se fossero state adottate le misure di sicurezza di base. Anche un importante sindacato di giornalisti di Atene ha suggerito che i giornalisti stessi devono assumersi la loro parte di responsabilità, sostenendo che le principali organizzazioni giornalistiche greche hanno ampiamente sminuito i ripetuti avvertimenti dei sindacati ferroviari sul fatto che il sistema non era sicuro. La relativa mancanza di attenzione alla storia della sicurezza ferroviaria negli ultimi anni riflette un più ampio deficit di giornalismo d’inchiesta nei media del Paese. Osservatori esterni hanno affermato che la Grecia è il peggior Paese in Europa per quanto riguarda la sicurezza ferroviaria, lo stesso vale per la libertà dei media; l'anno scorso, Reporter senza frontiere ha classificato la Grecia al 108° posto su centottanta Paesi in tutto il mondo nel suo indice mondiale della libertà di stampa. Le preoccupazioni per la libertà di stampa in Grecia non sono nuove, ma la situazione sembra essersi deteriorata da quando il governo di Mitsotakis è salito al potere nel 2019. Nel 2021, un giornalista olandese con sede ad Atene è stato colpito da una pietra dopo aver accusato Mitsotakis di aver mentito e nello stesso anno, Giorgos Karaivaz, un importante reporter di cronaca nera, è stato ucciso con un colpo di pistola fuori casa. Recentemente poi diversi giornalisti hanno scoperto che i servizi di sicurezza greci hanno intercettato i loro telefoni. Le prossime elezioni si terranno tra qualche mese e molto probabilmente i risultati risentiranno del modo in cui è stata gestita, anche in termini di comunicazione, questa crisi.



I limiti aziendali dell’IA


James Bridle - scrittore, artista, nonché uno dei più originali pensatori del nostro tempo - con un titolo provocatorio firma una long read del Guardian sull’intelligenza artificiale. L’autore sostiene che questa, nella sua forma attuale, consista semplicemente nell’appropriazione della cultura già esistente. Questa nuova ondata di intelligenza artificiale non solo è diventata protagonista nel dibattito pubblico ma ha rappresentato la fortuna delle aziende tech che, nonostante gli sforzi, non sono riuscite a persuaderci sulle potenzialità della blockchain e della realtà virtuale. Ma ciò che sta accedendo attorno a questo fenomeno è tutt’altro che nuovo: negli ultimi due decenni, i principi fondamentali dell'intelligenza artificiale “accademica” non sono cambiati. L’elemento distintivo rispetto al passato non è l'intelligenza, ma i dati e il potere. Le big tech, per oltre 20 anni, hanno raccolto una enorme quantità di dati dalla vita di tutti i giorni, potendo così costruire data center dotati di sistemi di elaborazione sempre più potenti e sofisticati. La maggior parte di questo bagaglio culturale (testi, immagini, etc.) rientra nel cosiddetto “fair use” (consentito negli Stati Uniti, discutibile nell'UE). Queste aziende sono riuscite a penetrare ogni aspetto della vita quotidiana delle persone, anche nella parte più creativa, promettendo in cambio “new realms of human experience, give us access to all human knowledge, and create new kinds of human connection”. La quantità di dati è dunque quel fattore distintivo che permette oggi all’IA di influenzare le persone in modo sempre più efficace e persuasivo. Esiste un’alternativa a questo tipo di IA? Secondo Bridle, basterebbe fuoriuscire dalla rete di potere che hanno costruito le big tech: “intelligence is a poor thing when it is imagined by corporations”. Solo grazie alla possibilità di “partecipare” pienamente e attivamente a questi fenomeni si può ottenere il meglio che questi possono offrire.

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