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Editoriale 121

La comunicazione sui media
06 - 12 marzo

14 marzo 2023

Più advocacy per il clima. Chi ha paura della disinformazione? Uno studio. Cresce la propaganda razziale in America. Trump coi bot. Quando un agnello ti costa il lavoro. Anche i monaci buddisti usano TikTok. Meta e il piano di non avere un piano. La strada dell’IA è ancora lunga. Il peso delle storie nella corporate governance.

La Redazione


Più advocacy per il clima


Di fronte all’aumento delle emissioni globali l’inazione non è più un’opzione. Ed è alle aziende che Harvard Business Review indirizza alcuni suggerimenti per realizzare una strategia di advocacy efficace a tutela del clima. Un obiettivo possibile da raggiungere solo attraverso un cambio dalla duplice natura, normativa e culturale. Due terreni di gioco nei quali le imprese potrebbero dare un contributo importante: nel primo caso lavorando con policymaker, associazioni di settori e ONG per cambiare le leggi; nel secondo utilizzando strumenti come media e pubblicità per raggiungere, sensibilizzare e coinvolgere consumatori e dipendenti. Una buona strategia di advocacy non può però prescindere da: 1) Autenticità: è importante ricollegarsi alla storia dell’azienda, anche se non è perfetta. Per esempio, Patagonia è un marchio nato basato sull’amore per la montagna del suo fondatore, ma la vicinanza alla natura legata a questa passione è stata la base su cui si è affermata la volontà di proteggere il pianeta; 2) Ambizione: meglio porsi obiettivi più ambiziosi ma basati sulla scienza che limitarsi a ciò che si ritiene possibile. Emblematico il caso di Ecosia, uno dei maggiori movimenti mondiali di riforestazione il cui motore di ricerca ecologico funziona con energia 200% rinnovabile; 3) Rappresentanza: coinvolgere i dipendenti è fondamentale. Natura lo ha fatto con la campagna “The Future is in Your Hands” in difesa dell’Amazzonia, a ridosso delle elezioni presidenziali brasiliane. 4) Attivismo: una voce aziendale al tavolo può fare la differenza per proteggere i più vulnerabili. 5) Alleanza: le aziende devono giocare un ruolo importante nella protezione di chi è più fragile, mettendo le persone, la giustizia e i diritti umani al centro delle azioni per il clima, perché la società civile e i movimenti giovanili non possono riuscirci da soli.



Chi ha paura della disinformazione? Uno studio


Le persone più preoccupate dagli effetti delle fake news sono anche quelle che meno credono nel buonsenso delle persone. Ciò è quanto emerge da un recente studio pubblicato su New Media & Society, e analizzato da The Washington Post, in cui gli autori, Sacha Altay dell'Università di Oxford e Alberto Acerbi della Brunel University, hanno dimostrato questa relazione sottoponendo a 600 intervistati tra USA e UK una serie di domande. L’indagine era tesa a misurare la capacità informativa percepita dagli intervistati di sé stessi e degli altri e ne è emerso che il 77% dei partecipanti crede che le persone in generale siano più vulnerabili alla disinformazione rispetto a quanto lo percepisca ciascuno di sé stesso. Il più importante fattore di pericolo percepito riguardo alla disinformazione è, quindi, la percezione che gli altri siano più “creduloni” di quanto ci si senta ciascuno. Stando ai dati emersi, se la paura della disinformazione si basa sulla percezione di un basso indice di comprensione delle persone, tale paura avrebbe basi contrarie alla democrazia e conseguenza sarebbe che la volontà popolare dovrebbe avere un peso minore nelle decisioni dei governi. D’altra parte, un’altra considerazione naturale è che la democrazia per funzionare correttamente necessita di cittadini ben informati e le misure tese a contrastare il propagarsi delle fake news dovrebbero essere spinte non dalla scarsa fiducia nella democrazia ma dal desiderio di migliorare e rendere sempre più consapevole l’espressione popolare. Le battaglie contro la disinformazione dovrebbero partire da quest’ultima premessa.



Cresce la propaganda razziale in America


Alan Feuer del New York Times porta alla luce il rapido diffondersi della propaganda del suprematismo bianco in America. Secondo il report della Anti-Defamation League, il 2022 ha visto oltre 6mila episodi di questo genere, registrando un aumento di quasi il 40% rispetto al 2021 e oltre cinque volte superiore relativamente al 2018. “Non c'è dubbio che i suprematisti bianchi e gli antisemiti stiano cercando di terrorizzare e intimidire gli americani e che abbiano intensificato in modo significativo l'uso della propaganda come tattica per far conoscere la loro presenza nelle comunità a livello nazionale”, ha dichiarato Jonathan Greenblatt, amministratore delegato dell'A.D.L. Secondo i ricercatori dell'A.D.L. sono tre i gruppi – Patriot Front, Goyim Defense League e il movimento White Lives Matter – che sono stati responsabili di oltre il 90% degli incidenti, promuovendo i loro messaggi con diversi mezzi, tra cui manifestazioni, raduni e campagne intimidatorie. Il Patriot Front, responsabile lo scorso anno della maggior parte della propaganda, spesso nasconde le sue idee usando frasi leggermente più moderate come “Reclaim America” e “One Nation Against Immigration”. L'anno scorso è stato coinvolto in una serie di manifestazioni pubbliche, che hanno portato all'arresto di decine di suoi membri, tra cui il suo fondatore, Thomas Rousseau. Negli ultimi anni, la Goyim Defense League ha cercato di diffondere una versione violenta dell'antisemitismo sia online che in pubblico. A ottobre, dopo che kanye West aveva fatto una serie di dichiarazioni antisemite, la Goyim Defense League e altri gruppi, sfruttando il momento, hanno usato un proiettore laser per mostrare un messaggio all'esterno di uno stadio di football a Jacksonville, in Florida, che recitava: “Kanye ha ragione sugli ebrei”. La rete White Lives Matter, emersa per la prima volta nel 2015, mentre il movimento Black Lives Matter si stava rapidamente affermando, l'anno scorso ha distribuito adesivi con un codice QR che rimandava al suo account Telegram e sponsorizzato la teoria cospirativa del “great replacement”, secondo la quale la sinistra starebbe cercando di cambiare l'equilibrio razziale del Paese incoraggiando l'immigrazione. Il gruppo ha ottenuto una vittoria in ottobre, quando West si è presentato a un evento durante la Settimana della moda di Parigi indossando una maglietta “White Lives Matter”. Da un lato la trovata è costata a West corposi contratti di marketing, dall'altro ha rappresentato un caso rilevante di promozione di questi fenomeni.



Trump coi bot


L’agenzia di intelligence israeliana Cyabra ha scoperto un’ampia rete di bot, costituita da migliaia di account falsi su Twitter, che veicola messaggi contro i concorrenti dell’ex presidente Donald Trump alle primarie repubblicane. Come riporta Associated Press, i bot hanno attaccato in particolare Nikki Haley, l'ex governatrice della Carolina del Sud e ambasciatrice delle Nazioni Unite e Ron DeSantis, già al centro di altre polemiche da parte di Trump (vedi Editoriale 120). Da dove provengono i bot? Anche se non è possibile risalire all’identità di chi li ha realizzati, sembra siano stati creati negli Stati Uniti. Tutti i profili presentano foto personali del presunto titolare dell'account e un nome. Alcuni hanno pubblicato i propri contenuti, mentre altri hanno ripubblicato post di utenti reali. I ricercatori di Cyabra hanno scoperto che quasi tre quarti dei post negativi su Haley sono riconducibili ad account falsi, e hanno individuato numerosi appelli affinché DeSantis si unisse a Trump come suo vicepresidente, un risultato senza dubbio utile all’ex presidente degli Stati Uniti. In sostanza, la rete di bot ha creato un'immagine complessivamente falsa del sostegno di Trump online. Infatti, come sostiene anche Samuel Woolley, professore e ricercatore di disinformazione presso l'Università del Texas, lo scopo dei falsi account è proprio questo: contribuire ad amplificare determinati contenuti in modo da influenzare l’opinione pubblica. Secondo Woolley, i robot potrebbero presto diventare molto più subdoli grazie ai progressi dell'intelligenza artificiale e trasformarsi in vere e proprie “pedine” strategiche nelle campagne elettorali sul web. Così facendo gli elettori e i candidati non potranno più difendersi dagli attacchi online anonimi.



Quando un agnello ti costa il lavoro


Da guerra sociale a guerra economica. In Iran, dove l’onda delle proteste per la morte della ventiduenne Mahsa Amini sembra essersi attenuta, il regime teme che la crisi economica che il Paese sta attraversando possa scatenarne di nuove. Ecco così che il governo iraniano ricorre nuovamente alla censura per stroncare sul nascere qualsiasi forma di dissenso: un esempio è la chiusura del quotidiano riformista Sazandegi, per più di una settimana, dopo aver riportato con l’articolo a firma di Akbar Montajabi l'aumento dei prezzi dell'agnello in vista del Nowruz, il capodanno iraniano. “Scrivere di proteste significava scrivere dei sogni di libertà e uguaglianza degli iraniani, ma scrivere di carne significava mettere in luce una realtà quotidiana e tangibile”, ha dichiarato il giornalista nella redazione vuota di Sazandegi al Financial Times. La libertà di stampa in Iran è sempre stata molto fragile e la censura spesso poggia su basi etniche e di genere. Nella classifica annuale stilata da Reporter senza frontiere che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 paesi del mondo, l’Iran si trova al 178esimo posto (vedi Editoriale 101). Mentre la televisione di Stato continua a fare propaganda, molti iraniani dispongono di un software VPN (rete privata virtuale) che consente loro di aggirare le restrizioni su Internet e sulle app dei social media (vedi Editoriale 110). Abbas Abdi, analista riformista, ha dichiarato al quotidiano Ham-Mihan che la chiusura di Sazandegi per il titolo dell'agnello ha rivelato che l'establishment politico “non comprende il concetto di media” e “a causa di politiche mediatiche disastrose, la stampa si trova in un baratro in cui il potere di influenzare l'opinione pubblica è molto limitato” ha aggiunto. Il giornalismo in Iran potrebbe non offrire molto “pane a chi scrive, ma è comunque un lavoro rispettato", spiega Montajabi. “E quando il giornale viene chiuso, acquista ulteriore credibilità perché questo è un paese di paradossi” dove la maggior parte delle persone comuni legge il giornale solo se una storia è stata evidenziata per la prima volta sui social media.



Anche i monaci buddisti usano TikTok


In Cambogia più di un terzo della popolazione usa TikToke, tra loro, anche i monaci buddisti, che lo usano fondamentalmente per diffondere i principi del buddismo theravada, la scuola più antica del paese. Tuttavia, come riportato da Rest of World, il codice monastico ha regole molto rigide, pensate in modo che i monaci non attirino l’attenzione su di sé. Recentemente è dunque nato un dibattito tra i religiosi: c’è chi ritiene TikTok un canale utile per coinvolgere più fedeli, e chi invece lo reputa uno strumento controverso e da usare con grande cautela. Alcuni dei monaci tiktoker hanno centinaia di migliaia di followers e postano in maggioranza foto di momenti di preghiera o video in cui parlano degli insegnamenti del Buddha e del percorso che i buddisti dovrebbero seguire per metterli in atto. Ogni tanto però condividono – soprattutto i novizi – anche contenuti che vanno al di là della religionecome selfie, video spiritosi e foto che in qualche caso sembrano voler attirare attenzioni non esattamente religiose. Tra i principi del buddismo theravada, i novizi sono tenuti a seguire precetti come non danzare, non cantaree in generale mantenere un comportamento estremamente sobrio e rispettoso. Bo Pisey – 132mila follower – ed Hak Sienghai – 550mila follower – ritengono che sia naturale utilizzare TikTok in un mondo in cui la tecnologia ha rivoluzionato il modo di comunicare con le persone. Altri sostengono che mettersi in mostra su TikTok sia contrario ai valori buddisti o che sarebbe necessario introdurre una sorta codice di condotta digitale. Il dibattito interno è aperto, ma di certo è molto difficile rispettare alcuni precetti su una piattaforma in cui è facile raggiungere rapidamente un’ampia audience e il rischio di “mettersi in mostra” è molto alto.



Meta e il piano di non avere un piano


Le piattaforme social di Mark Zuckerberg si dividono tra la necessità di una sempre maggiore trasparenza e gli obiettivi di monetizzazione. Come analizzato da The Conversation, il loro principale intento è trattenere il più possibile gli utenti sulla piattaforma cercando di esporli a contenuti e adv scelti dall’algoritmo in modo da raccogliere il maggior numero di dati e informazioni personali che diventano poi fonte di guadagno. Dall’altro lato, la precisione ed efficacia con cui sono costruiti gli strumenti pubblicitari non si ritrova in quelli che invece dovrebbero contrastare la diffusione della disinformazione. Database come il CrowdTangle di Facebook sarebbero estremamente utili per ricostruire le origini e dinamiche di diffusione delle fake news ma questo strumento non risulta essere progettato in modo efficace per la raccolta a lungo termine di contenuti che, se eliminati dalla piattaforma, spariscono anche dal database. Ogni contenuto che circola sui social sembra quindi doversi sempre adattare agli interessi e ai piani della piattaforma che però in questi ultimi anni sono cambiati ed evoluti nel tempo. Dopo il fallimento del metaverso, infatti, Meta si è trovata costretta a ridefinirsi ed inseguire la concorrenza, avvicinandosi addirittura alle caratteristiche di TikTok: non più foto e commenti di amici e parenti ma contenuti caricati da account terzi scelti da un algoritmo sulla base delle nostre preferenze. Un articolo de Il Foglio evidenzia il paradosso di Meta: “Il piano di Menlo Park, che consiste nel non avere un piano, sta funzionando”.



La strada dell’IA è ancora lunga


Come riporta il New York Times, Chat GPT di Open AI (vedi Editoriale 116), come tutti i presunti progressi rivoluzionari nell'intelligenza artificiale, costituisce motivo di preoccupazione e di ottimismo. Ottimismo perché l'intelligenza è il mezzo con cui risolviamo i problemi. Preoccupazione perché temiamo che l'apprendimento automatico degradi la nostra scienza e svilisca la nostra etica, incorporando nella tecnologia una concezione fondamentalmente errata del linguaggio e della conoscenza. Da quando – come riporta Internazionale – nel 1958 lo psicologo Frank Rosenblatt sviluppò Perceptron, un programma per riconoscere le immagini che applica le teorie di McCulloch e Pitts, questi programmi sono stati acclamati come i primi barlumi all'orizzonte dell'intelligenza artificiale generale, quel momento a lungo profetizzato in cui le menti meccaniche avrebbero superato i cervelli umani non solo quantitativamente in termini di velocità di elaborazione e dimensioni della memoria, ma anche qualitativamente in termini di intuizione intellettuale, creatività artistica e ogni altra facoltà umana.  Quel giorno potrebbe arrivare, ma contrariamente a quanto si legge nei titoli iperbolici e ai calcoli di investimenti (secondo Statista, sull’intelligenza artificiale nel 2021 si sono spesi poco meno di 100 miliardi di dollari), sembra che il momento non sia ancora arrivato. La società internazionale di consulenza strategica McKinsey ha definito Chat GPT “non perfetta ma straordinariamente impressionante”. Ma per quanto questi programmi possano essere effettivamente utili in alcuni ambiti ristretti come nella programmazione informatica, o nel suggerire rime per versi leggeri, sappiamo dalla scienza della linguistica e dalla filosofia della conoscenza che differiscono profondamente dal modo in cui gli esseri umani ragionano e usano il linguaggio. Come sottolinea il noto linguista Noam Chomsky, tali programmi sono bloccati in una fase preumana o non umana dell'evoluzione cognitiva. Il loro difetto più profondo è l'assenza della capacità più critica di qualsiasi intelligenza. Naturalmente, qualsiasi spiegazione di tipo umano non è necessariamente corretta; siamo fallibili. Ma questo fa parte di ciò che significa pensare. L'intelligenza non consiste solo in congetture creative, ma anche in critiche creative. Il pensiero di tipo umano si basa su possibili spiegazioni e sulla correzione degli errori, un processo che limita gradualmente le possibilità che possono essere considerate razionalmente. Ma ChatGPT e programmi simili sono, per loro stessa concezione, illimitati in ciò che possono “imparare” (cioè memorizzare), sono incapaci di distinguere il possibile dall'impossibile. Mentre gli esseri umani sono limitati nei tipi di spiegazioni che possono razionalmente ipotizzare, i sistemi di apprendimento automatico possono imparare sia che la terra è piatta sia che la terra è rotonda. Si tratta solo di probabilità che cambiano nel tempo. Per questo motivo, le previsioni dei sistemi di apprendimento automatico saranno sempre superficiali e dubbie. La vera intelligenza è anche capace di pensare in modo morale, mentre dai sistemi di intelligenza artificiale scaturisce solo un’indifferenza morale che si rifiuta di prendere posizione su qualsiasi cosa. Dunque è vero che siamo realmente di fronte a un cambiamento le cui conseguenze, in termini di rischi, di benefici e di potenzialità, in buona parte ci sfuggono ancora, ma è anche vero che la strada dell’intelligenza artificiale è ancora lunga e, almeno per ora, non sostituirà quella umana.



Il peso delle storie nella corporate governance


Negli ultimi anni abbiamo vissuto numerosi sviluppi della corporate governance che hanno reso la versione antecedente alla crisi finanziaria del 2007-2008 un lontano ricordo. Protagonista oggi indiscussa è la sostenibilità, in tutte le sue declinazioni, che rappresenta lo spartiacque tra il modello tradizione e quello innovativo della corporate governance. Uno dei nuovi elementi fondamentali per creare valore per tutti gli stakeholder è, secondo MF, lo storytelling inteso come “capacità di raccontare e di comunicare la propria storia, i propri valori, le proprie capacità e aspirazioni”. Si tratta di una capacità che si basa su una poliedricità culturale e professionale in quanto richiede competenza storiche, di corporate finance e governance. Ed è l’ennesima dimostrazione di come la comunicazione sia parte integrante di tutti gli aspetti di una società.

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