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Editoriale 113

La comunicazione sui media
09 - 15 gennaio

17 gennaio 2023

L’urgenza di cambiare la narrazione sul cambiamento climatico. Cosa c’entrano i cinesi nell’assalto in Brasile. Non tutto è uno scandalo. Che fine ha fatto il più forte dei wolf warrior. Battaglia titanica per l’impero di Murdoch. Americani divisi su TikTok. Due approcci diversi alla legge anti big tech. A scuola di disinformazione.

La Redazione


L’urgenza di cambiare la narrazione sul cambiamento climatico


Il modo di raccontare e comunicare il cambiamento climatico è cambiato nel tempo. Se prima il tema era trattato in modo marginale e distaccato adesso il racconto è diventato emergenziale, personale e spesso distopico. Certamente le cattive notizie di questi ultimi anni, dati gli eventi climatici estremi sempre più frequenti, non possono essere trascurate ma l’attuale monotonia del modo di comunicare il cambiamento climatico può anche essere causa di indifferenza e disillusione tra le persone. La crisi che stiamo vivendo oggi, come spiegato in una long read de The Guardian, può essere certamente intesa anche come crisi di narrazione. Attualmente, come riporta l’autrice Rebecca Solnit, siamo circondati da storie che ci impediscono di vedere o credere ad una concreta possibilità di un cambiamento per cui agire. L’attuale narrazione infatti sembra quasi tenere le persone imprigionate in uno stato, una condizione immutabile in cui l’uomo subisce i cambiamenti del mondo senza poter rimediare concretamente. Certamente, la rapidità di fruizione dei contenuti, specialmente online, cambia il nostro modo di reagire, facendoci diventare quasi apatici o insensibili dopo un primo momento di interesse o eccitazione per una notizia. Ciò che dunque deve accompagnare gli sviluppi e i miglioramenti già in atto è la ricerca e realizzazione di tante storie di un futuro vivibile che, pezzo dopo pezzo, possano dunque motivare le persone ad agire concretamente per creare, attraverso l’immaginazione, una nuova realtà. La crisi climatica, le azioni da intraprendere e il tipo di mondo che possiamo avere dipendono anche dalle storie che raccontiamo e dalle storie che vengono ascoltate. La narrativa disillusa e catastrofica di questo periodo, pronta a colpevolizzare tutti quei singoli individui che non agiscono quotidianamente in modo sostenibile, influenza anche la percezione della realtà. La rivista scientifica Nature ha pubblicato uno studio da cui emerge che la maggior parte degli americani crede che solo una minoranza (37-43%) sia favorevole all'azione sul clima, mentre in realtà lo è una grande maggioranza (66-80%). Questo divario tra il sostegno percepito e quello effettivo mina la motivazione e la fiducia delle persone che si sentono sempre più impotenti e, di conseguenza, poco propense ad agire per contribuire ad un cambiamento del mondo. La soluzione al problema del riscaldamento globale non è dunque solo scientifica o tecnologica e, cosa più importante, non può essere solo una ma possono essere tante quante le storie che siamo capaci di raccontare.



Cosa c’entrano i cinesi nell’assalto in Brasile


Qual è stato il ruolo de i social media nell’assalto alle istituzioni brasiliane lo scorso 8 gennaio? Gli osservatori negli Stati Uniti hanno subito paragonato la rivolta in Brasile all'attacco del 6 gennaio al Campidoglio di due anni fa. Le somiglianze sono evidenti, ma il panorama dei social media è diverso. Come riporta Semafor, un ruolo decisivo potrebbe averlo avuto Kwai, una piattaforma video simile a TikTok gestita da uno dei maggiori concorrenti cinesi di ByteDance, Kuaishou, che conta mensilmente 45 milioni di utenti attivi in Brasile, circa il 20% della popolazione totale. Sebbene gli esperti sostengano che app come Telegram e Twitter possono aver avuto un impatto più importante nell'attacco in questione, alcuni brasiliani hanno incolpato anche le teorie cospirative e la retorica violenta che si sono diffuse su Kwai. Kuaishou ha trasformato il suo social in una piattaforma popolare in Brasile rivolgendosi al pubblico della classe operaia, una strategia che ha perfezionato per la prima volta in Cina, dove è nota per aver trasformato contadini e altri abitanti delle campagne in personaggi famosi su Internet. In America Latina, ha cercato di fare la stessa cosa con attori delle fiction. Nelle linee guida della community di Kwai si legge che sono vietate “electoral misinformation” e “harmful conspiracy theories”. Ma non è chiaro quanto l’azienda faccia rispettare le proprie regole. Negli ultimi anni, la pressione dell'opinione pubblica ha portato Meta e altri giganti americani dei social media a divulgare maggiori informazioni su come controllano le loro app in tutto il mondo. Attualmente si sa molto meno su come le aziende cinesi di social media operano all'estero.



Non tutto è uno scandalo


Quando sono stati ritrovati nuovi documenti riservati (oltre a quelli già rinvenuti a novembre) nell’abitazione privata di Joe Biden in Delaware, i giornalisti di Washington hanno fatto di tutto per aggiudicarsi l’esclusiva sullo scandalo. In realtà, come spiega il Washington Post, di scandaloso c’è ben poco e quella che sembrava essere la notizia dell’anno si è rivelata un’opportunità per i media di far crescere il numero dei lettori, dopo due anni di relativa quiete (vedi Editoriale 81). Infatti, i documenti riservati, che riguardavano il mandato da vicepresidente di Joe Biden durante l’amministrazione di Obama, sono stati prontamente riconsegnati alle autorità federali, come avvenuto anche in precedenza. Nonostante ciò la scoperta ha scatenato una vera e propria corsa allo scoop. La storia è stata oggetto del servizio principale dei notiziari della sera della ABC e della CBS lunedì mentre la CNN gli ha dedicato 1 ora e 47 minuti rispetto ai 29 minuti su Fox News. Il Washington Post ha pubblicato un articolo in prima pagina mercoledì, il New York Times giovedì e la news ha ricevuto un’ulteriore copertura dopo che il procuratore generale Merrick Garland ha annunciato di aver nominato un consulente speciale per indagare sulla questione. La maggior parte dei media ha paragonato la vicenda allo scandalo di Trump, che aveva nascosto documenti riservati nel resort di Mar-a-Lago in Florida. Tuttavia, come sottolinea anche Poynter, le differenze sono sostanziali: Trump, infatti, aveva deliberatamente tentato di nascondere agli investigatori i documenti che erano stati recuperati in seguito dopo un intervento dell’FBI. Ma ciò non ha impedito ai repubblicani di muovere critiche sulla “differenza di trattamento” da parte dei media. I due casi sono comunque difficili da confrontare. È giusto che si dia copertura alla notizia e che questa possa rivelarsi particolarmente problematica per Biden tuttavia si è molto distanti dagli “anni di Trump” (con fughe di notizie, battaglie infuocate nelle conferenze stampa e guerre mediatiche) che tanto hanno fruttato ai media americani. È giunto il momento che i giornalisti diventino più responsabili: la storia sui documenti riservati di Biden deve essere raccontata, ma non deve diventare il pretesto per creare uno scandalo.



Che fine ha fatto il più forte dei wolf warrior


Uno dei più importati e promettenti “wolf warrior”, Zhao Lijian, è stato nominato vicedirettore per gli “boundary and ocean affairs”. Secondo quanto spiega il Financial Times, il trasferimento sarebbe insolito considerato che si tratta di uno dei più alti funzionari e portavoce ufficiale del regime e, di norma, figure di questo livello hanno più ampie prospettive di carriera. “Boundary and ocean affairs non è uno dei dipartimenti [del ministero degli Esteri] più popolari”, ha spiegato Yun Sun, esperto di diplomazia cinese allo Stimson Center di Washington. “Il trasferimento potrebbe essere stato causato dalla troppa attenzione che ha attirato negli ultimi tre anni e dal bisogno di tempo e spazio per rilassarsi”. Zhao salì agli onori della cronaca quando, ambasciatore ad Islamabad, tramite Twitter esortò i funzionari cinesi a mantenere un atteggiamento fermo e severo nei confronti dei contestatori. Funzionari soprannominati in seguito “wolf warrior”, dopo una serie di film con protagoniste le forze speciali cinesi. Zhao, che su Twitter ha 1,9 milioni di follower, si fece notare per le sue teorie complottiste circa le origini della pandemia di Covid-19 e per un’immagine che ritraeva un bambino australiano che minacciava un bambino afghano. Nel 2019 era stato definito da Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale dell'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, una “vergogna razzista”. Il fatto che una personalità di questo calibro sia stata retrocessa di grado può nascondere molto probabilmente pressioni o azioni giudicate errate o scorrette dal Partito.



Battaglia titanica per l’impero di Murdoch


Rupert Murdoch, per la maggior parte della sua carriera, non ha avuto il controllo dell'azienda di famiglia, la News Corporation. Difatti, come riporta il Financial Times, per circa quattro decenni il regno di Murdoch è dipeso dalla buona volontà dalle sue sorelle. “La più grande minaccia al controllo di Rupert Murdoch su News Corp è sempre stata la sua famiglia”, ha affermato a tal proposito Neil Chenoweth, biografo di Murdoch. Gli stessi dilemmi della successione, del controllo condiviso e delle intricate lealtà familiari sono ora destinati a ricadere pesantemente sulla prossima generazione della dinastia Murdoch. Con un piano da 27 miliardi di dollari in corso per riunire le due metà - Fox e News Corporation - una domanda incombe: quando sarà il momento, il resto della famiglia lascerà che il figlio maggiore e l'erede prescelto di Murdoch, Lachlan, gestisca tutto? Lachlan, amministratore delegato di Fox Corporation e co-presidente esecutivo di News Corp, potrebbe gestire l'azienda senza avere il pieno controllo della quota di famiglia, detenuta insieme ai fratelli Prudence, Elisabeth e James. Difatti, non è affatto certo che i suoi fratelli siano così accomodanti come le sorelle di Rupert. James, ad esempio, si è allontanato da Lachlan e ha detto agli amici di essere determinato a riorientare l'azienda, con o senza il fratello; la lealtà delle sorelle, invece, è al momento incerta. In altre parole, “si scatenerà presto una battaglia titanica”.



Americani divisi su TikTok


L’intervista di Graham Vyse ad Aynne Kokas (C.K. Yen Professor presso Miller Center e associate professor of media studies presso University of Virginia) su The Signal rivela il crescente divario tra le autorità e la società statunitensi in merito a una delle app social più popolari in America e nel mondo, TikTok. A fine dicembre, il presidente Joe Biden ha firmato una legge che vieta l'uso della piattaforma di proprietà cinese sui dispositivi del governo federale degli Stati Uniti. L'idea alla base di questa iniziativa è che TikTok potrebbe rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale, dato che la Cina influenza ed estrae dati dalla società che ne è proprietaria. Con oltre un miliardo di utenti mensili in tutto il mondo, TikTok guadagna sempre più popolarità, soprattutto tra i più giovani anche se, negli ultimi due anni, la percentuale di adulti americani che hanno dichiarato di ricevere regolarmente notizie da TikTok è triplicata, passando dal 3% nel 2020 al 10% nel 2022. Secondo Kokas, c'è un consenso generale tra le élite politiche statunitensi sulla necessità di difendersi dalle minacce alla sicurezza nazionale provenienti da TikTok, ma i partiti repubblicano e democratico hanno adottato approcci diversi alla questione. I repubblicani sono stati più audaci nella loro retorica contro il social, mentre i democratici procedono con più cautela, anche perché ricevono più donazioni politiche dal settore tecnologico rispetto ai repubblicani. Inoltre, Vyse solleva la questione dell'effetto sulla salute mentale degli adolescenti e ricorda che hacker affiliati al governo cinese hanno già rubato alcuni dati dall'Office of Personnel Management degli Stati Uniti. Non è quindi azzardato immaginare che vogliano accedere ad altre reti governative statunitensi.



Due approcci diversi alla legge anti big tech


Come riportato da PressGazette, lo scorso settembre i leader di diversi sindacati dei giornalisti hanno scritto alla commissione giudiziaria del Senato degli Stati Uniti per esprimere la propria preoccupazione nei confronti di una legge che costringe i giganti della tecnologia a pagare gli editori per usufruire dei loro contenuti. I leader di Newsguild hanno affermato di non avere nessuna fiducia nel fatto che il Journalism Competition and Preservation Act porti vantaggio ai giornalisti. In UK, invece, la National Union of Journalists è stata particolarmente silenziosa sull'imminente Digital Markets, Competition and Consumer Bill, che allo stesso modo cercherà di costringere Google e Facebook a pagare per le notizie sui loro siti. Entrambi i sindacati vogliono proteggere i posti di lavoro dei giornalisti, ed entrambi hanno fatto commenti positivi sull'obbligo per i grandi della tecnologia di pagare per i contenuti, quindi perché hanno adottato approcci così diversi nei confronti dei provvedimenti? Forse perché, come dichiarato da Jon Schleuss – presidente di Newsguild – con il JCPA si sarebbero dovuti legare i compensi ai posti di lavoro. Ma negli Stati Uniti i private equity e gli hedge fund controllano molte redazioni e non reinvestono i capitali nel giornalismo, bensì depositano gli asset in paradisi fiscali come le Isole Cayman. Anche in UK molti media sono di proprietà di edge fund e private equity, ma il NUJ – per quanto allineato con il Newsguild – ha alzato meno la voce, sottolineando “l'urgente necessità di investimenti in posti di lavoro e formazione di qualità, insieme all'innovazione in tutto il settore, con finanziamenti significativi frutto di una tassa sulle piattaforme tecnologiche”. Con il tempo, visti i buoni rapporti con il Newsguild, il NUJ potrebbe intraprendere azioni più decisive in tal senso.



A scuola di disinformazione


Analizzare giornali e video di TikTok, per parlarne insieme e capire le differenze tra un post sui social e un articolo. Ma anche imparare il funzionamento degli algoritmi di ricerca e discutere degli effetti della propaganda sponsorizzata dallo Stato attraverso meme e siti di informazione russi. In Finlandia la disinformazione si combatte anche tra i banchi di scuola, grazie all’iniziativa di docenti di tutto il Paese. Un impegno che, come riporta il New York Times, unito alle basi forti del sistema educativo nazionale porta risultati concreti: la Finlandia si è, infatti, confermata al primo posto per la quinta volta di fila tra i 41 Paesi europei in materia di resilienza alla disinformazione secondo un sondaggio pubblicato a ottobre dall’Open Society Institute di Sofia. Il fatto che il finlandese sia parlato da poche persone (circa 5,4 milioni) è certamente d’aiuto, perché fake news scritte da autori non madrelingua possono, a volte, essere identificati grazie a errori di grammatica o sintassi. Ma non basta: in Finlandia, prosegue il Times, secondo un’indagine di IRO Research il 76% della popolazione considera giornali cartacei e digitali affidabili, contro, un sondaggio di Gallup, il 34% dei cittadini statunitensi. Il Paese nordico ha sviluppato gli obiettivi nazionali per la media education nel 2013, per poi accelerare le proprie campagne negli anni seguenti e ampliare la platea, ora estesa anche ad altre fasce di popolazione; nelle biblioteche, infatti, anche le persone anziane possono andare a “lezione di disinformazione”. Una sensibilità coltivata negli anni che – col senno di poi – ha portato la Finlandia a arrivare preparata alla minaccia rappresentata dalla Russia, che ha diffuso fake news su argomenti come l’adesione del Paese alla NATO.

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