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Editoriale 111

La comunicazione sui media
12 - 18 dicembre

20 dicembre 2022

Twitter e Facebook files, un confronto. È davvero la fine dei social media? Il CEO del Washington Post sempre più solo. Chi ha vinto i Mondiali di calcio. La CNN tra informazione e intrattenimento. Gli immigrati non fanno più notizia.

La Redazione


Twitter e Facebook files, un confronto


Come riporta Politico, mentre i “Facebook Files” (documenti rilasciati alla fine del 2021 da Frances Haugen) hanno riscosso un certo successo, lo stesso non si può dire per i recenti “Twitter Files”. I due casi si distinguono sia per i metodi di diffusione mediatica sia per gli obiettivi degli informatori. I “Facebook Files” sono stati il prodotto di un'intensa indagine del Wall Street Journal, con Haugen che ha successivamente rilasciato i dati a più di una dozzina di media importanti, che hanno confermato e amplificato le affermazioni originali. Su Twitter, invece, Musk ha concesso un accesso privilegiato ad alcuni giornalisti “amici”. L'obiettivo finale della ex dipendente di Meta era quello di denunciare l'incapacità di Facebook di fare i conti con i danni causati dal suo stesso prodotto, e in effetti i “Facebook Files” hanno contribuito a creare una nuova narrazione su come l'azienda abbia gestito i problemi di moderazione dei contenuti. D'altra parte, i “Twitter Files” sono un tentativo di legittimare una narrazione conservatrice ben collaudata e hanno l’evidente scopo di screditare gli ex dirigenti della piattaforma dell’uccellino blu, ad esempio con le accuse di aver dato priorità alla moderazione della disinformazione politica rispetto allo sfruttamento minorile, cercando di mettere in buona luce il nuovo patron. Si può dire quasi che se i primi riguardano l'interesse pubblico, i secondi riguardano invece le pubbliche relazioni.



È davvero la fine dei social media?


Le Big Tech, come raccontato nell’articolo di Axios, non hanno mai affrontato nella loro storia una crisi del genere. Queste grandi aziende, più che temere le minacce di azioni governative, sembrano piuttosto preoccupate dall'ascesa di nuovi concorrenti e dai cambiamenti di massa nel comportamento degli utenti. Sebbene la tech economy possa sembrare un infinito ciclo di espansione e frenata (boom-bust), la curva del cambiamento guidata dall'informatica e dalla comunicazione digitale continua a salire. Inoltre, in un mercato così saturo, anche i social media hanno subito qualche contraccolpo. Anche se Axios (e non solo) parla di “Sunset of the social network”, secondo alcune statistiche rilevate a livello globale e riportate da Formiche, ciò che certamente non sembra essere in crisi è la loro funzione connettiva. Nel 2022 il 47% degli utenti utilizza i social per rimanere in contatto con amici e parenti, motivazione in cima alla lista delle preferenze delle persone connesse. Tra le altre funzioni favorite spiccano anche la lettura di notizie (34,6%) e la ricerca di contenuti (30%). Appare quindi sempre più evidente che, oltre al “chi”, abbia un peso specifico notevole anche il “che cosa” si trova su queste piattaforme e inoltre buona porzione di pubblico è adesso alla ricerca di spazi social su misura, lontani da logiche di mercato e algoritmi ma piuttosto nei quali riconoscersi il più possibile. Certamente la sopravvivenza per le Big Tech e i social stessi si giocherà anche sulla loro capacità di adeguarsi con un modello di business più sostenibile di fronte ad un panorama mondiale e mediale che sembra continuare a cambiare e trasformarsi ogni giorno.



Il CEO del Washington Post sempre più solo


Durante un town hall interno con i dipendenti, il CEO del Washington Post Fred Ryan ha sorpreso tutti rivelando l’esistenza di un piano di licenziamenti previsto per l'inizio del 2023. Come riportato da Politico, Ryan è stato investito da una marea di domande e richieste di chiarimenti che l’hanno costretto ad abbandonare il meeting. Il town hall non è l’unico episodio spinoso del 2022, ma gran parte dell’anno è stato un incubo per Ryan. Dopo anni di crescita ed espansione, a fine agosto il New York Times ha riferito che quest’anno il Post avrebbe perso profitti. Queste notizie potrebbero non stupire, considerata la natura ciclica del business dei giornali e che altre redazioni hanno licenziato dipendenti, tra cui Gannett e CNN. La questione più dannosa non è che il Post stia perdendo profitti, ma il fatto che il Times abbia avuto accesso a documenti interni del giornale e che più di 20 persone “a conoscenza delle operazioni commerciali del Post” abbiano rilasciato dichiarazioni (per lo più in forma anonima). Il pezzo del Times rivela anche le lamentele di Ryan sui giornalisti con poca produttività, la sua richiesta di registri di “presenze” ai meeting online come un modo per valutare l’efficienza e i suoi piani per inviare lettere disciplinari ai dipendenti che non vanno in ufficio. È dannoso e decisamente imbarazzante per un'istituzione come il Post subire così tante violazioni della riservatezza, soprattutto quando è un concorrente ad avere accesso alle informazioni. Le recenti partenze dei migliori giornalisti del Post verso altre redazioni non possono essere attribuite a Ryan, ma il malcontento della sua executive editor Sally Buzbee, sì. Oliver Darcy della CNN riferisce che Buzbee sarebbe stata informata dei nuovi tagli di Ryan con scarso preavviso, appena la sera prima del town hall. Quando il Magazine è stato chiuso, a Ryan è stata risparmiata l'ira della redazione perché Buzbee ha affermato di assumersene la “piena responsabilità”. Ma per quanto tempo ancora Buzbee supporterà Ryan? Secondo un articolo di Semafor, Buzbee starebbe valutando di dimettersi e ciò darebbe la dimensione dell’attrito tra lei e Ryan, sempre più solo all’interno del Washington Post.



Chi ha vinto i Mondiali di calcio


Mentre il Qatargate preoccupa le istituzioni europee e non solo, The Guardian pubblica un articolo in cui emergono forti legami tra i lobbisti inglesi e il Paese che ha ospitato la competizione. L’Argentina avrà anche vinto i Mondiali, ma a “portare a casa” un’ingente fortuna sono sicuramente stati i lobbisti e gli avvocati britannici che si sono prodigati per ripulire l’immagine del Qatar. Quando i giornalisti hanno iniziato a denunciare le condizioni dei lavoratori migranti che hanno costruito gli stadi e la mancanza dei diritti fondamentali della comunità Lgbtq+, la risposta è arrivata immediatamente dai lobbisti. Tra questi George Pascoe Watson, un ex redattore politico del Sun, e ora partner di Portland, azienda londinese di pubbliche relazioni e lobbying fondata da Tim Allan, ex consigliere di Tony Blair, che ha beneficiato delle elezioni nel Qatar avvenute prima dei Mondiali. Un’altra figura che ha svolto un ruolo importante nel cambiare l’immagine pubblica del Qatar è l’inglese Richard Conway, prima corrispondente della BBC Sport e ora proprietario di un’altra agenzia che negli ultimi anni ha lavorato quasi esclusivamente ai Mondiali. Coloro che hanno avuto a che fare con lui affermano che ha adottato un approccio informale invitando importanti giornalisti a incontri ufficiosi con alti funzionari del Qatar negli hotel di Londra. In tutto ciò, i giornalisti che hanno continuato a criticare il Paese sono stati denunciati dallo studio legale Carter Ruck. Come emerso dall’inchiesta del Guardian, le strategie messe in atto da tutte le agenzie hanno permesso di arginare le discussioni e di ribaltarle, accusando la controparte di assumere posizioni anti-arabe. Senza dubbio l’immagine del Qatar è profondamente cambiata dopo la decisione di ospitare i Mondiali. Le preoccupazioni di carattere etico hanno lasciato spazio alla cronaca sportiva e così, dopo il primo calcio di inizio, tutti gli altri dibattiti sono passati in secondo piano.



La CNN tra informazione e intrattenimento


La posizione da CEO della CNN ha rappresentato per Chris Licht un’occasione per trasformare l’emittente in un canale di notizie di cui fidarsi e non uno strumento per monetizzare le lotte popolari. La realtà dei fatti però, come raccontato dal New York Times, è stata inizialmente ben diversa e infatti l’eliminazione del nascente servizio di streaming della rete CNN+, il licenziamento di circa 400 dipendenti e un conseguente calo di fatturato hanno compromesso i suoi obiettivi iniziali. Per poter raggiungere e coinvolgere una fetta più ampia di pubblico, che nel mondo dell’informazione è ormai sempre più polarizzato, Licht ha spinto per realizzare programmi, approfondimenti e dibattiti capaci di essere avvincenti e appassionanti senza però danneggiare l’informazione. I primi sforzi per una nuova programmazione e stile di Licht, volti a riposizionare la rete come più ampia e meno partigiana, hanno suscitato ampie critiche anche da parte di ex colleghi. Licht proviene infatti da programmi di intrattenimento e non ha mai gestito un'organizzazione complessa, estesa a tutto il mondo e con migliaia di dipendenti. La sfida della CNN si è rivelata più impegnativa del previsto tra budget ridotti, richieste del consiglio di amministrazione e opportunità di intercettare una nuova e specifica audience che possa trovare soddisfazione dall’emittente senza dover proporre quindi contenuti con prese di posizioni a priori. Alla fine, tra la crescita del sito e di nuovi programmi di informazione e commento, la strategia di Licht si è rivelata vincente, proponendo una nuova CNN meno di parte ma comunque sempre impegnata nella ricerca della verità.



Gli immigrati non fanno più notizia


I temi che causano maggiore dibattito rappresentano focus passeggeri su cui il mondo dell’informazione si concentra per poi trovare qualcosa di più appetibile per i fruitori di notizie. Ed è proprio il caso della questione immigrati sostituita, come scrive Repubblica, dalle più stringenti emergenze, dal Covid alla crisi climatica ed energetica. La relazione tra insicurezza, migrazione e comunicazione ha funzionato molto bene tra il 2017 e il 2018 mentre oggi gli immigrati, da un punto di vista mediatico e politico, non suscitano emozione. Ed ecco perchè “chi in passato ne ha fatto una bandiera per attrarre consensi oggi deve cercare altri argomenti, se non altri nemici”.

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