Editoriale 106
La comunicazione sui media
07 - 13 novembre
15 novembre 2022
Il silenzio assordante di Putin. Lobbying all’inglese. Immuni dalla disinformazione. Chi ha davvero perso le elezioni. Murdoch VS Trump. Trattare i giornalisti come attivisti pericolosi. Il ruolo politico della musica.
La Redazione
Il silenzio assordante di Putin
La ritirata russa da Kherson ha messo in seria difficoltà la propaganda del Cremlino. Questa l’analisi di Joshua Keating e Stanislav Kucher su GRID, dove alla cronaca degli avvenimenti a livello militare fanno seguito alcune considerazioni sul disordine a livello di narrativa. Yevgeny Prigozhin, lo “chef di Putin” a capo della Brigata Wagner, ha definito la decisione del generale Sergej Surovikin “non facile, ma ha agito da uomo che non teme la responsabilità. Lo ha fatto in maniera organizzata, senza paura, avocando interamente a sé la pienezza della decisione”, mentre per il dittatore ceceno Ramzan Kadyrov si è trattato di una scelta “difficile ma giusta”. Dichiarazioni che raccontano una ritirata non senza dolore. Non va meglio in televisione e sui canali Telegram pro-Cremlino, dove è stato postato un video nel quale il ministro della Difesa Sergej Šojgu ordina la ritirata: il contenuto ha attirato il ridicolo da parte degli oppositori della guerra e uno tsunami di reazioni indignate di chi, invece, supporta l’“operazione militare speciale”; alcuni commenti sul canale Telegram di Margarita Simonyan, caporedattrice di Russia Today, parlano addirittura di tradimento. E anche questa figura interviene nel dibattito, creando un parallelismo con la resa di Mosca all’esercito napoleonico da parte del comandante Mikhail Kutuzov nel 1812, che, alla fine, vinse la guerra. E mentre il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov sostiene che Kherson rimane territorio russo e che l’operazione militare speciale non si ferma, il silenzio del presidente Putin in merito si fa assordante.
Lobbying all’inglese
The Guardian racconta, in esclusiva, una realtà preoccupante che riguarda la Repubblica Democratica del Congo: la società di lobbying britannica CT Group, che ha profondi legami con il partito conservatore (Tory), avrebbe infatti pianificato una campagna segreta per influenzare le elezioni in Congo in cambio di milioni di sterline da First Quantum Minerals, una società mineraria canadese. Nel 2010 la Repubblica Democratica del Congo aveva revocato drasticamente i permessi di estrazione del rame di First Quantum; la società, dunque, aveva riunito un esercito di avvocati per contestare la decisione nei tribunali internazionali e mesi dopo si era rivolta direttamente a CT Group. I documenti mostrano che il gruppo CT, allora noto come CTF Partners, aveva dichiarato a First Quantum nel maggio 2011 che avrebbe influenzato le imminenti elezioni dando supporto diretto all’avversario politico del presidente e indebolendo la figura di quest’ultimo sia all’interno del Paese che a livello internazionale. Tutto ciò al fine di “create a climate of opinion” che avrebbe incoraggiato qualsiasi tribunale internazionale a favorire First Quantum nella sua controversia legale con il governo della Repubblica Democratica del Congo. I documenti riservati mostrano anche che nel 2014 la CTF ha condotto sondaggi e focus group in Zambia e ha fornito informazioni politiche al suo cliente su quale partito politico “avrebbe avuto un approccio più favorevole e coerente nei confronti del settore minerario”. E ci sono prove del suo intervento anche nel 2015. Addirittura, alcuni degli strumenti utilizzati dalla CTF in Zambia prima delle elezioni sono tuttora attivi, come il sito web “Open Zambia”, che continua a pubblicare articoli e si vanta di essere una “voce indipendente”, quando in realtà intende favorire gli interessi di First Quantum. La società di lobbying con sede a Londra ha tra i suoi proprietari anche il conservatore Lynton Crosby, considerato “la mente organizzativa” delle campagne elettorali di Theresa May e Boris Johnson. CT Group ha affermato che il suo intervento durante le elezioni in Congo e in Zambia è stato finalizzato solamente a migliorare il processo democratico.
Immuni dalla disinformazione
Gli americani sono sempre più immuni dalla disinformazione politica? Come evidenzia Jack Shafer in un articolo su Politico, i “disinfo artists” in occasione delle elezioni di midterm non sono riusciti a convincere molte persone che il processo elettorale sia truccato e corrotto. I cittadini sono stanchi di idee cospiratorie, complice anche il caos scaturito dal Covid, dall'inflazione, dall'aumento della criminalità, dai licenziamenti e dall'imminente recessione. Tutti fenomeni documentabili, a differenza delle bugie sui brogli elettorali. Già a fine 2019, David Karpf, professore di media e affari pubblici della George Washington University, aveva sminuito gli effetti della disinformazione parlando delle infiltrazioni russe nelle elezioni del 2016. Karpf sosteneva che il fenomeno meritasse attenzione ma non ossessione e che fosse impossibile hackerare le menti degli elettori con la propaganda digitale. L’America non ha mai avuto un pubblico ben informato ma il processo di “social learning” sembra abbia portato la maggior parte delle persone a prestare più attenzione ai pericoli reali che a quelli immaginari.
Chi ha davvero perso le elezioni
I media sono il “biggest looser” delle elezioni di midterm. Lo sostiene Dana Milbank sul Washington Post, chiedendo ironicamente scusa ai colleghi: ”I’m sorry to say that my colleagues in the political press blew it”. Prima delle recenti elezioni, alcune delle più influenti testate e tv americane davano per certa la così detta “onda rossa”, spiegando il motivo per cui si sarebbe raggiunto quel risultato. Cosa è successo? I giornalisti politici sono stati risucchiati da una straordinaria ondata di sondaggi spazzatura e di parte nelle ultime settimane della campagna. Non solo: ciò che ha creato confusione nei media sono state anche le conclusioni sospette di alcuni dei sondaggi più credibili del Paese. Come se non bastasse, i giornalisti sono stati anche influenzati dal possibile fallimento dei democratici dovuto a una campagna fortemente focalizzata su aborto e democrazia a discapito di economia e criminalità, temi che invece avevano avuto un posto di rilievo in molte delle loro campagne. Sarà curioso leggere cosa scriveranno dopo l’esito finale delle elezioni.
Murdoch VS Trump
Le recriminazioni sull'inaspettata debolezza dei repubblicani nel giorno delle elezioni di midterm hanno avuto un ruolo di primo piano sulle pagine e sulle frequenze dei media di Rupert Murdoch, con particolari attacchi a Donald Trump: “Trump è il più grande perdente del Partito Repubblicano” recitava il titolo di un editoriale del Wall Street Journal. La copertina del New York Post - come scrive The New York Times - era altrettanto scottante: riportava un'illustrazione di Trump raffigurato come Humpty Dumpty. Fox News, invece, ha trascorso tutta la giornata delle elezioni con commentatori che hanno incolpato Trump di aver trascinato l'intero partito verso il basso. I due Murdoch che gestiscono la Fox Corporation e le sue attività giornalistiche, Rupert e suo figlio Lachlan, hanno espresso il timore che l’ex inquilino della Casa Bianca possa ridurre le possibilità di vittoria del Partito Repubblicano. Secondo persone che hanno parlato con entrambi, il loro disagio nei suoi confronti deriva dal suo rifiuto di accettare i risultati delle elezioni del 2020. Questa situazione ha indotto Trump a scagliarsi contro la Fox Corporation sulla sua piattaforma di social media, Truth Social: “Per me Fox News non c'è mai stata, nemmeno nel 2015-2016 quando ho iniziato il mio viaggio”. In tutto questo, tra l’altro - secondo Poynter -, le proprietà di Murdoch sembra stiano dando supporto al governatore della Florida, Ron DeSantis, che è stato rieletto senza ostacoli e sta facendo parlare di sé come possibile candidato repubblicano alla presidenza per il 2024. Come proseguirà la saga?
Trattare i giornalisti come attivisti pericolosi
Tom Bowles e Rich Felgate, due giornalisti arrestati nel Regno Unito durante la protesta del movimento ambientalista Just Stop Oil di lunedì 7 novembre 2022, hanno dichiarato al Byline Times di ritenere di essere stati deliberatamente presi di mira nel tentativo di interrompere la copertura mediatica della manifestazione. Ammanettati dopo 10 minuti dal loro arrivo, la polizia inglese ha ignorato i tesserini di riconoscimento della stampa che entrambi possiedono e che hanno cercato di utilizzare come prova valida del fatto che erano lì per lavorare. L'arresto fa seguito a quello di Charlotte Lynch, giornalista della LBC che stava seguendo il Just Stop Oil la settimana precedente. Tutti e tre i giornalisti sono stati arrestati con l'accusa di “associazione a delinquere finalizzata al disturbo della quiete pubblica”. Si tratta di un nuovo reato, introdotto quest'anno con il controverso Police, Crime, Sentencing and Courts Act, che prevede una pena detentiva fino a dieci anni. Rich Felgate è riuscito a filmare il proprio arresto e il video sarà probabilmente utilizzato come prova in una causa che i due giornalisti stanno intentando contro la polizia dell'Hertfordshire. Mentre Charlotte Lynch ha ricevuto le scuse del commissario di polizia, Bowles e Felgate non le hanno ricevute. Ciò spaventa entrambi i professionisti perché questa situazione rappresenta un cambiamento nel modo in cui la polizia tratta il giornalismo nel Regno Unito. Si teme che l'arresto dei giornalisti potrebbe “diventare una prassi comune” se il prossimo disegno di legge sull'ordine pubblico diventerà realtà. Tale disegno di legge prevede nuovi poteri di arresto e perquisizione per la polizia, che potrebbero consentire la detenzione di chiunque sia sospettato di voler partecipare a una protesta ostruzionistica. In questo caso la stampa avrà difficoltà a coprire queste manifestazioni senza temere di essere molestata, di vedersi sequestrare le riprese o di essere arrestati.
Il ruolo politico della musica
La musica è libertà, solidarietà e unione. Spesso diventa simbolo e con in sé racchiude significati più profondi, di lotta civile e politica, o anche solo di pace. Lo sanno bene i regimi autoritari che da secoli la sottopongono a censura, come ogni altro mezzo di comunicazione. Delle vicissitudini tormentate della musica ne parla Siegmund Ginzberg in un articolo de Il Foglio in cui narra il ruolo giocato da alcune canzoni popolari nelle lotte di classe e in alcune rivoluzioni. Dal Sudafrica dei tempi dell’apartheid alla Germania nazista, alcuni regimi hanno vietato generi di musica non conformi all’ideologia di governo, altri invece l’hanno proibita in toto, come l’Afghanistan dei talebani. In Cina, negli anni della Rivoluzione culturale, erano vietate tutte le canzoni e una nuova stretta è stata recentemente imposta da Xi Jinping che ha chiuso un sito dedicato al rap cinese. Nonostante la censura, le canzoni hanno avuto e mantengono un ruolo cruciale. In Cecoslovacchia negli anni 70 l’arresto dei Plastic People of the Universe ispirò Charta 77, Rivoluzione di velluto e il crollo del Muro. Ora in Iran risuona la canzone Baraye, che significa “per”: elenca i motivi per cui lottare contro il potere ed è la colonna sonora di ragazzi e ragazze che dopo la morte di Mahsa Amini (vedi Editoriale 101) protestano in tutto il Paese. Nonostante i 244 morti e numerosissimi arresti, la canzone continua a riecheggiare ed è spesso accompagnata da “Bella ciao”, canzone diventata l’emblema della rivolta contro i regimi. Le rivoluzioni prima di essere politiche, sono culturali, e nascono da melodie e balli, proprio ciò che alcuni governi continuano a proibire.