Editoriale 103
La comunicazione sui media
17 - 23 ottobre
26 ottobre 2022
Le divisioni sociali generano disinformazione. Crisi d’identità al New York Times. Il Twitter indiano fa la corte ai partiti. Media inglesi: reputazione della BBC e incidente al Daily Telegraph. Chi paga per le notizie in America. Non schierarsi è un bene per gli affari.
La Redazione
Le divisioni sociali generano disinformazione
Un’analisi del New York Times spiega come la disinformazione in America sia aumentata attraverso nuove piattaforme che eludono i controlli sulle fake news, e come essa sia legata alle profonde divisioni sociali e politiche del Paese. A due settimane dalle elezioni di metà mandato, esperti e studiosi affermano che la disinformazione si è trasformata e, nonostante gli sforzi da parte dei media per affrontare il problema, è addirittura cresciuta. Non molto tempo fa, la lotta alle fake news si concentrava sulle principali piattaforme di social media. In molti casi, i contenuti incriminati venivano rimossi. Oggi invece esistono dozzine di nuovi siti che si vantano di non moderare o “censurare” dichiarazioni false in nome della libertà di parola. È proprio su questi siti che spesso i controlli non sono efficaci: Parler, BitChute, Gab, Gettr, Rumble, Telegram e Truth Social sono solo alcune delle piattaforme su cui chiunque può scrivere o diffondere informazioni non verificate. Molte di queste sono nate sulla scia della sconfitta di Trump nel 2020 e dipingono le Big Tech come legate al governo o all'élite liberale. Un nuovo sondaggio del Pew Research Center ha rilevato che il 15% degli account principali su queste piattaforme era stato precedentemente bannato dalle altre, come Twitter e Facebook. Sempre secondo gli esperti del settore, le recenti divisioni sociali e politiche della nazione non hanno fatto altro che alimentare queste nuove ondate di disinformazione. Le politiche attuate per affrontare la pandemia di Covid-19 hanno intensificato la sfiducia nei confronti del governo e delle istituzioni sanitarie, soprattutto tra i conservatori. Il rifiuto di Trump di accettare l'esito delle elezioni del 2020 ha portato alla violenza di Capitol Hill. La pandemia e le rivolte, come sostengono alcuni studiosi, avrebbero dovuto unire la popolazione americana, in realtà hanno solamente acuito i conflitti e favorito la diffusione della disinformazione.
Crisi d’identità al New York Times
In un articolo di Semafor, Ben Smith analizza la crisi d’identità che sta attraversando il New York Times, per cui in passato ha lavorato come media columnist. Ad agosto 2022 l’investitore attivista ValueAct ha acquistato una partecipazione del 6,7% nella società del quotidiano più famoso al mondo. Il capitale di 16 miliardi di dollari è gestito dal giovane canadese Dylan Haggart con l’obiettivo di continuare lo sviluppo nel digitale per soddisfare la richiesta dei consumatori statunitensi. A partire da ciò sono state effettuate le acquisizioni di Wordle e The Athletic in modo da ampliare il pubblico a coloro che non desiderano “solo notizie”. La chiave della crescita passa anche attraverso la promozione per soli abbonati di pacchetti che uniscono più prodotti, i cosiddetti “bundle”, spinti da Wall Street affinché il Times ottenga una migliore valutazione in borsa avendo margini di profitto più elevati. Il problema principale risulta la promozione: il team di marketing riuscirà a trovare un modo per convincere gli abbonati a pagare di più per avere di più? In redazione, dopo il licenziamento di Bennet e la commercializzazione del Progetto 1619, la direzione sta cercando di attuare un cambiamento culturale per un ambiente di lavoro più progressista e di un giornalismo di larghe vedute, per far sì che fatti di estremismo e di contestazione politica come quelli avvenuti il 6 gennaio 2020, organizzati dai sostenitori di Trump con l’invasione del Campidoglio, non si ripetano mai più. Allo stesso tempo, il quotidiano fa particolare attenzione nel seguire e dare spazio ai punti di vista dei conservatori per non incorrere nelle loro lamentele e contestazioni.
Il Twitter indiano fa la corte ai partiti
Il sito di microblogging indiano Koo, etichettato dagli accademici come il “Twitter nazionalista”, sta corteggiando i partiti politici di tutto il Paese nel tentativo di convincere i potenziali utenti di non essere una eco chamber di destra. “Vogliamo essere conosciuti come una piattaforma inclusiva”, ha dichiarato al Financial Times il cofondatore Aprameya Radhakrishna. Koo, infatti, ha attirato diversi politici di destra dopo il battibecco del febbraio 2021 tra Twitter e il partito Bharatiya Janata Party del primo ministro Narendra Modi per le proteste degli agricoltori contro le politiche agricole. Nuova Delhi, di conseguenza, aveva accusato Twitter di aver permesso la diffusione di fake news sulle manifestazioni, mentre il gigante dei social media ha respinto le richieste di bloccare giornalisti e leader delle proteste; in tutto questo, sostenendo che Twitter stesse soffocando le voci nazionaliste di destra, gli esponenti del partito si sono rivolti a Koo. Twitter “non può arrogarsi il diritto di giudicare ciò che costituisce libertà di parola”, aveva scritto su Koo, a tal proposito, Amit Malviya del Bharatiya Janata Party. In tutto questo il cofondatore di Koo ha dichiarato che le persone possono pubblicare “qualsiasi cosa vogliano sulla piattaforma, purché rispetti la legge del Paese”. Radhakrishna, tra l’altro, ha aggiunto che le regole non dette che governano la condotta in pubblico dovrebbero essere praticate anche online.
La reputazione della BBC
A minare la reputazione di una media company può bastare un tweet (anche se seguito da correzioni o smentite). Soprattutto se l’azienda in questione è la BBC, il cui lavoro sulla politica interna non è considerato all’altezza di quello, egregio, svolto a livello internazionale. Questa la riflessione che Patrick Howse, ex reporter e producer dell’emittente britannica, affida a Byline Times, prendendo in considerazione la recente gaffe del redattore politico della BBC Chris Mason, ovvero un tweet, pubblicato sul suo profilo personale il 22 ottobre, relativo a 100 membri del Parlamento conservatori che sarebbero stati pronti a sostenere Boris Johnson nella corsa alla successione a Liz Truss. A nulla sono serviti ripensamenti e correzioni pubblicati sia sul suo account che da BBC Breaking News: media companies britanniche e di tutto il mondo avevano già iniziato (e, in alcuni casi, hanno continuato) a diffondere la notizia del sostegno a Johnson. E non è la prima volta, continua Howse, che un redattore della BBC che segue la politica interna dà credito a storie non confermate per creare una “notizia” prima degli altri: questo era prassi, spiega, con la precedente redattrice politica di Mason, Laura Kuenssberg. Un comportamento, continua, in enorme contrasto con la credibilità internazionale di cui la BBC gode, che la vede posizionata come un’emittente che rende un servizio di informazione su quello che accade nel mondo, anche affrontando situazioni rischiose. Evidentemente, conclude, la copertura della politica interna non è da anni all’altezza di questa reputazione, con il rischio concreto di averla rovinata per sempre.
Incidente al Daily Telegraph
The Guardian racconta che il Daily Telegraph, subito dopo le dimissioni della Truss, ha pubblicato un corposo editoriale pro Boris firmato da Nadhim Zahawi. Nello stesso istante Johnson ha ritirato il suo nome dalla lista di possibili candidati alla leadership, lasciando i media e i suoi sostenitori sbigottiti; in particolare il Daily Telegraph, che ha reagito in maniera insolita eliminando l’articolo senza lasciare alcuna spiegazione per i lettori. Nonostante la prontezza del giornale e il tentativo di un portavoce di giustificare l’accaduto affermando che “come primo giornale digitale rispondiamo rapidamente ai principali eventi, cercando di aggiornare i nostri contenuti il più rapidamente possibile”, la rapidità nella circolazione delle informazioni in rete non ha evitato la diffusione e l’archivio dell’articolo, oggi ancora rintracciabile in rete. È davvero questo il modo per garantire l'indipendenza dei media dagli eventi esterni?
Chi paga per le notizie in America
È difficile trovare qualcosa sui cui gli americani siano d’accordo, ma un sondaggio svolto da Gallup e da Knight Foundation ci è riuscito. Come riportato da NiemanLab, lo studio in questione ha rivelato che oltre il 50% degli intervistati è d’accordo sul fatto che la principale fonte di finanziamento per le notizie debba essere la pubblicità. Dopo di che, le persone sono piuttosto divise. I più ricchi, ad esempio, sono molto più propensi a dire che la principale fonte di finanziamento per le notizie dovrebbero essere le donazioni individuali, mentre gli americani più poveri tendono a dire che dovrebbe essere il governo. Inoltre, è molto più probabile che gli americani che guadagnano più di 150.000 $ all'anno abbiano, non a sorpresa, pagato per accedere alle notizie rispetto a quelli di qualsiasi altro gruppo di reddito (anche la fascia da 100.000 $ a 150.000 $). In generale, alle persone non piace l'idea che i clienti che pagano ricevano le notizie prima degli altri, anche se i giovani sono più aperti a questo e ad altri modelli di pagamento rispetto agli anziani. L'abbonamento è di gran lunga il modo più comune per pagare le notizie. Infine, il sondaggio ha rivelato che tra i democratici ci sia il 14% in più di probabilità che abbiano pagato per accedere alle notizie rispetto ai repubblicani. E che tra gli americani con un'istruzione universitaria ci sia circa il doppio delle probabilità di aver pagato per le notizie rispetto agli americani che non hanno completato quattro anni di college.
Non schierarsi è un bene per gli affari
M.Scott Havens, amministratore delegato di Bloomberg Media, ritiene che la sua azienda si trovi nella “posizione perfetta” per soddisfare la crescente domanda del pubblico di notizie imparziali. In un'intervista rilasciata a Press Gazette, Havens ha dichiarato che, a suo avviso, gran parte dei media statunitensi ha cambiato orientamento politico, a destra o a sinistra, per seguire quello dei propri lettori. Atteggiamento che sarebbe un retaggio del passato, secondo Havens, ma che ora non porta i risultati sperati. “La nostra opinione è che quello sia stato un momento storico – ha spiegato Havens – ma in realtà ci deve essere uno scopo più alto per una piattaforma di notizie obiettiva e basata sui dati come la nostra”. Il CEO di Bloomberg nell’intervista è stato ottimista circa il futuro della sua azienda: con la crisi economica attuale, Bloomberg si troverebbe in una “posizione relativamente favorevole”. Bloomberg Media ha, infatti, un'attività diversificata, sia dal punto di vista geografico che organizzativo, è operativa negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in altri Paesi del mondo. Havens ha infine concluso: “Se la crisi economica si protrarrà, solo i più forti sopravviveranno, quelli con modelli di business diversificati e stabili”.