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Editoriale 99

La comunicazione sui media
19 - 25 settembre

28 settembre 2022

La propaganda globale russa. Troll russi vs femminismo americano. Odio online in Germania. L'ansia dell’informazione. La credibilità di Google. “La pandemia è finita”. Mappa politica della disinformazione. Censura in Tunisia. Media locali per crisi globali.

La Redazione


La propaganda globale russa


In questi mesi, secondo l’analisi dell’Economist, oltre gli sforzi per plasmare la narrativa in Europa e America, la Russia ha esteso le sue attività di propaganda anche nei paesi in via di svilippo, dall’Africa al Medio Oriente fino ad arrivare in America Latina. “La propaganda russa oggi ha un vantaggio nel sud globale”, sostiene Timothy Snyder dell'Università di Yale in un saggio per Foreign Affairs. Nonostante questo, la macchina di disinformazione russa affronta però anche battute d’arresto, spesso dovute da limiti tecnologici o da controlli dei contenuti online. Inoltre, gli sforzi del Cremlino non si concentrano soltanto verso l’esterno ma devono anche guardare alla situazione interna del Paese, controllando e contrastando eventuali subbugli. Il New York Times racconta infatti dell’esistenza di diversi documenti del sistema di sorveglianza della Russia che descrivono in dettaglio il funzionamento interno di sorveglianza e censura di Putin, usato per trovare e rintracciare gli oppositori, schiacciare il dissenso e sopprimere le informazioni indipendenti anche nelle zone più lontane del Paese. Il regolatore russo di Internet, Roskomnadzor, ha lavorato per smascherare e sorvegliare le persone che si celano dietro gli account antigovernativi e ha fornito informazioni dettagliate sulle attività online dei critici alle agenzie di sicurezza attraverso strumenti e sistemi di censura capaci di controllare una sempre più vasta percentuale di contenuti online. Tra disinformazione e censura la Russia vuole creare la sua versione del mondo.



Troll russi vs femminismo americano


Non solo la politica statunitense, ma anche la sua società nel mirino della macchina di disinformazione russa. Oltre che alla sfida tra Trump e Clinton (vedi Editoriale 8), alla politica fatta lontana dalla Casa Bianca (vedi Editoriale 94) il Cremlino ha, infatti, posto l’attenzione anche su altri obiettivi, come il movimento femminista. A riportarlo è il New York Times con la storia di Linda Sarsour, l’attivista americano-palestinese che nel gennaio 2017 ha guidato a Washington la Women’s March contro il presidente Trump. All’evento hanno presenziato, seppure a distanza, anche alcune organizzazioni vicine al governo russo, che da San Pietroburgo hanno iniziato a postare sul Web contenuti critici verso la manifestazione, usando delle fittizie identità americane. Tra contenuti contrari al femminismo bianco e all’esclusione di donne conservatrici e di scherno verso le manifestanti, c’è un filone narrativo che ha avuto particolarmente successo: quello che dipingeva Ms. Sarsour, che indossa l’hijab, come  un’islamica radicale infiltrata nel movimento femminista. Visto il successo della manovra, le organizzazioni russe, anche con il supporto di account gestiti dal GRU, il servizio di intelligence militare del Paese, continuano ad attaccarla anche in altre occasioni. Lei verrà a sapere soltanto qualche anno dopo la provenienza di quei messaggi, ma intanto la sua vita è cambiata, con ogni probabilità irrimediabilmente, e per lei è svanita ogni possibilità di candidatura politica. Cambi di progetti personali, ma anche messa a tacere di una voce nel dibattito pubblico e discordia seminata in mezzo a un movimento agli antipodi rispetto al tradizionalismo russo. L’antica tecnica della messa alla gogna amplificata dalla Rete e messa al servizio, ancora una volta, della guerra ibrida della Russia all’Occidente.



Odio online in Germania


Negli ultimi anni la Germania ha iniziato a perseguire penalmente le persone per incitamento all'odio online. Come riporta il New York Times, fenomeni come incitamento all'odio, estremismo, misoginia e disinformazione sono ormai ben noti sottoprodotti di Internet. Tuttavia, le persone dietro questi comportamenti tossici online non vengono mai individuate e, così, non subiscono conseguenze nel mondo reale. La maggior parte delle democrazie occidentali ha evitato di controllare Internet a causa dei diritti di libertà di parola. Talvolta le piattaforme collaborano con la polizia, ma la maggior parte degli autori rimane impunita. L'assassinio del tedesco Walter Lübcke (un politico locale oggetto di numerosi episodi di odio online a causa di dichiarazioni sull’immigrazione) a opera di un fanatico neonazista ha rappresentato un punto di svolta, intensificando gli sforzi in Germania per perseguire le persone che hanno violato le leggi online. E, nell'ultimo anno, il governo ha adottato regole che hanno reso più facile arrestare coloro che prendono di mira personaggi pubblici su Internet. Gran parte del lavoro quotidiano di polizia spetta a squadre locali come quella di Göttingen, in Bassa Sassonia. Creato nel 2020, il gruppo di sei avvocati e investigatori è uno dei più aggressivi del Paese. Hassmelden, un'organizzazione no profit con sede a Berlino che aiutava le persone a presentare reclami, riceveva più di 4.000 richieste al giorno. Il gruppo ha chiuso l'anno scorso dopo che non riusciva a tenere il passo con il carico di casi. Le autorità tedesche hanno sporto denuncia per insulti, minacce e molestie. La “polizia di Internet” ha fatto irruzione nelle case, sequestrato dispositivi elettronici e arrestato persone per interrogarle. I giudici hanno imposto multe del valore di migliaia di dollari ciascuno e, in alcuni casi, hanno mandato in prigione i trasgressori. La minaccia dell'accusa, secondo il governo tedesco, non eliminerà l'odio online, ma respingerà nell'ombra alcuni dei peggiori comportamenti. L'esperienza della Germania è seguita da vicino in altri paesi come la Gran Bretagna e la Francia, dove i politici vogliono regolamentare in modo più rigoroso i discorsi su Internet, ma hanno vacillato su come trovare il giusto equilibrio con la libertà di espressione.



L'ansia dell’informazione


Da FOMO, Fear of missing out (paura di essere tagliati fuori) a ROMO, Relief of missing out (il sollievo di non sapere): l'ansia anticipata è una delle ragioni per cui un numero sempre maggiore di persone evita le notizie. Questa la tendenza che hanno rilevato Benjamin Toff e Rasmus Kleis Nielsen nella loro ricerca condotta per Political Communication e riportata da NiemanLab. Lo studio ha analizzato i comportamenti delle persone di classe media e bassa del Regno Unito che accedono regolarmente a poche o nessuna notizia prodotta professionalmente. I risultati suggeriscono che coloro che evitano le notizie non sentono il dovere di tenersi informati, in parte perché prevedono che le news li renderanno ansiosi senza essere rilevanti per la loro vita, con il risultato di un impegno limitato verso l’informazione e gli affari civici e politici. Si tratta di un fenomeno in crescita. L'ultimo Digital News Report ne traccia l'aumento in vari paesi. La percentuale di persone che dichiarano di evitare “a volte” o “spesso” attivamente le notizie in Brasile è aumentato dal 27% nel 2017 al 54% nel 2022; nel Regno Unito la percentuale passa dal 24% al 46%; in Australia dal 30% al 41% e negli USA è cresciuta dal 38% al 42% in soli 4 anni. Perché le persone abbandonano le notizie? Tra le ragioni addotte: si sentono stanche; sono troppo confuse; si sentono depresse; portano a litigare; si sentono impotenti. Ci troviamo forse all’interno di un circolo vizioso: meno persone leggono (e comprano) giornali, più questi abusano di clickbaiting facendo affidamento su titoli sensazionalistici per attirare l'attenzione generando però ansia e perdita di fiducia nell’informazione.



La credibilità di Google


Come scrive PressGazette, Reuters Institute for the Study of Journalism ha pubblicato recentamente un report dal titolo “The trust gap: how and why news on digital platform is view more sceptically versus news in generalche analizza, a seguito di un sondaggio condotto su 2mila persone di quattro paesi (Regno Unito, USA, Brasile e India), quanto si tenda a dare meno fiducia alle notizie riportate dai social media e dai motori di ricerca, ad eccezione di Google. Diverse le motivazioni: dal ruolo dei giornalisti che per alcuni appaiono voler maggiormente attirare l’attenzione piuttosto che raccontare la verità; l’utilizzo dei social per l'intrattenimento e per connettersi con le persone, piuttosto che per notizie o informazioni; il clima politico del paese in cui ci si trova. Un ruolo quello dei social media che non è rassicurante se lo si legge come strumento di propaganda. Proprio con la guerra russo-ucraina ancora di più si sono manifestati come mezzi prediletti per colpire le masse attraverso disinformazione e notizie distorte (vedi Editoriale 79). Come combattere allora questa tendenza? Una soluzione arriva dalla tecnica dello stitching da parte di professionisti e persone autorevoli, chiamati a smentire le fake news direttamente sui social network attraverso la pubblicazione di video in cui si smentisce quanto dichiarato erroneamente (vedi Editoriale 90).



“La pandemia è finita”


Dopo le controverse e ripetute affermazioni interventiste di Biden su Taiwan, l’ufficio stampa del Presidente si è nuovamente trovato a rimediare a una sua dichiarazione che ha allarmato i media e il sistema sanitario statunitense. “La pandemia è finita”: sono le parole che ha espresso durante la sua intervista a 60 Minutes, affermazione che immediatamente lo staff della Casa Bianca, dal consulente medico Anthony Fauci alla portavoce Karine Jean-Pierre, ancora una volta si è affrettato a ridimensionare, nel delicato tentativo di non smentire espressamente le parole del Presidente. Due americani moriranno di Covid nei prossimi 5 minuti” hanno evidenziato svariati commentatori di ala progressista, tuttavia non è mancato chi ha espresso posizioni più morbide: Biden si sarebbe limitato ad evidenziare un fatto politico e sociologico, per il quale la pandemia non è più sentita come tale da una popolazione ormai assuefatta. Tuttavia, evidenzia un articolo di Columbia Journalism Review, anche ammettendo un’interpretazione sociologica della dichiarazione del Presidente, non si può dimenticare l’effetto delle sue parole dato il ruolo che ricopre; da un lato, potrebbero depotenziare le politiche anti-Covid che tuttora continua a sostenere al Congresso, fornendo un assist involontario all’opposizione. Dall’altro lato, potrebbero invogliare la popolazione ad atteggiamenti più irresponsabili in una fase in cui, dal punto di vista sanitario, la pandemia è tutt’altro che scomparsa.



Mappa politica della disinformazione


I politici statunitensi diffondono molta più disinformazione su Twitter rispetto ai colleghi in Regno Unito e Germania. Come riportato da NiemanLab, Stephan Lewandowski e Jana Lassler hanno condotto uno studio sull'accuratezza dei tweet dei politici in tre diversi paesi: Stati Uniti, Regno Unito e Germania. Dopo aver analizzato più di 3 milioni di tweet pubblicati dal 2016 al 2022, è emerso che i politici dei partiti tradizionali in Regno Unito e in Germania pubblicano pochi link a siti web inaffidabili su Twitter, e questo è rimasto costante dal 2016. Al contrario, i politici statunitensi pubblicano una percentuale molto più alta di contenuti inaffidabili e tale quota è aumentata notevolmente dal 2020. Inoltre, i politici repubblicani hanno pubblicato complessivamente circa il 4% di link a siti non affidabili, rispetto a circa lo 0,4% dei politici democratici. Divario che si è ampliato negli ultimi anni: dal 2020, infatti, oltre il 5% dei tweet dei membri repubblicani del Congresso conteneva link non affidabili. Nel periodo preso in esame, i membri del parlamento britannico hanno condiviso solo 74 link non affidabili (0,01%) rispetto ai 4.789 (1,8%) dei politici statunitensi e gli 812 (1,3%) dei politici tedeschi.I ricercatori hanno confrontato i tweet con il database NewsGuard, in modo da valutare l'affidabilità del dominio a cui ci si collega, ed effettuato un contro-studio utilizzando un secondo database per ridurre al minimo il rischio di pregiudizi di parte per ciò che è considerato “inaffidabile”. La diffusione massiccia di fake news genera da anni preoccupazione riguardo il livello del dibattito politico e gran parte della discussione si è concentrata sui social media, in particolare sugli algoritmi che potrebbero orientare verso contenuti più estremi e che provocano indignazione. Tuttavia, i social non sono l'unica fonte del problema: Donald Trump, per esempio, ha fatto più di 30.000 affermazioni false o fuorvianti durante la sua presidenza.  Infine, condividendo fake news, i membri repubblicani del Congresso non solo le forniscono direttamente ai loro seguaci, ma più in generale li legittimano anche a condividere informazioni non affidabili.



Censura in Tunisia


In Tunisia è stata approvata una legge che sembra essere un meccanismo per punire uniformemente il dissenso. Come evidenzia Seth Smalley di Poynter, non è altro che una delle misure antidemocratiche adottate dal presidente tunisino Kais Saied, che prevede l'incarcerazione fino a cinque anni per i “fornitori di disinformazione”, ovvero gli oppositori politici. Quella tunisina non è il primo caso di legge antidemocratica nella regione, vi è infatti una legge turca che imporrebbe pene fino a tre anni per chi diffonde “fake news”. Già l'anno scorso il presidente Saied aveva abusato del suo potere, licenziando il primo ministro e bloccando il parlamento, giustificandolo con una disposizione della Costituzione tunisina che prevede lo stato di emergenza. Gli Stati Uniti hanno spinto i leader tunisini a rafforzare le misure democratiche, che hanno perso terreno da quando la Primavera araba ha avuto luogo più di un decennio fa. Nel 2020, Access Now, un gruppo internazionale della società civile, ha condannato una proposta di legge sulla disinformazione in Tunisia, giudicandola una minaccia diretta alla libertà di espressione online per giornalisti e attivisti. Sulla stessa linea anche Reporter Senza Frontiere, l'organizzazione non governativa internazionale che si occupa di media e che è responsabile dell'Indice mondiale della libertà di stampa, e Articolo 19, un’associazione di difesa che prende il nome dalla dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. Entrambi i gruppi, infatti, chiedono l’abrogazione della legge. Senza dubbio, è da sostenere la lotta alla disinformazione, specialmente in regioni in cui essa rappresenta un reale pericolo. D'altro canto, però, leggi del genere possono essere sfruttate da politici e governi per imporre restrizioni ai giornalisti e alla libertà di parola. Di conseguenza è necessario che siano chiare, definite, regolamentate e trasparenti.



Media locali per crisi globali


Una risposta forte alla disinformazione è arrivata dal palco del Press Institute World Congress di New York, tenutosi a settembre presso la Graduate School of Journalism della Columbia University. Come ha spiegato Poynter, che ci sia una crisi del giornalismo a livello mondiale è un fatto ormai noto, ma il potere delle redazioni locali spesso è sottovalutato. Questo è stato il messaggio principale che sei leader dell'informazione locale provenienti dall'Indonesia, dal Sudafrica e dagli Stati Uniti hanno condiviso in una tavola rotonda all’interno dell’evento. I media locali creano impegno civico e azioni positive e hanno il privilegio di coinvolgere il pubblico perché percepiti come più vicini al lettore. La giornalista che firma l’articolo è Preethi Nallu, global director di Report for the World, la risposta più recente a sostegno delle redazioni locali. Report for the World è il programma che consente ai giornalisti locali di raccontare in modo coerente temi critici fornendo loro un supporto editoriale e di sviluppo professionale e opera in questo modo: quando le redazioni locali dichiarano di avere delle lacune nella copertura di alcune informazioni, i giornalisti interessati si candidano tramite Report for the World che paga loro per un anno metà dello stipendio. In questo modo i giovani giornalisti ricevono una formazione e un tutoraggio avendo anche l’occasione di entrare a far parte di una rete internazionale. La cultura del reportage sul campo è volta così a costruire un modello più sostenibile e di maggiore impatto per i lettori.

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