Editoriale 105
La comunicazione sui media
31 - 06 novembre
9 novembre 2022
I conservatori comunicano meglio. Etichettare per semplificare. Terremoto a MSNBC. La parabola di Molly Jong-Fast. La lunga mano di Pechino. Google, trick or treat? Futuro in sospeso per il giornalismo mondiale.
La Redazione
I conservatori comunicano meglio
La recente acquisizione da parte di Elon Musk di Twitter ha rallegrato la parte più conservatrice degli utenti della piattaforma social considerandola ora più accogliente nei confronti delle loro idee, con poca censura o controllo (vedi Editoriale 104). Esistono però diversi social media conservatori in lizza per sostituire Twitter, tra cui Truth Social di Donald Trump, GETTR di Jason Miller e Gab, da tempo rifugio dei neonazisti. L’esistenza di queste piattaforme chiuse che diffondono informazioni estremiste e complottiste non sorprende. I conservatori, come ricordato da Politico, sono spesso stati i primi ad usare o innovare le piattaforme media emergenti. Anche a livello globale, gli schieramenti di destra ed estremisti si rivelano oggi più abili nella comunicazione digitale e nell’utilizzo della comunicazione sui media. I conservatori da oltre 70 anni infatti coltivano un sistema mediatico alternativo in grado di competere con l'egemonia dei media mainstream, con l’obiettivo di promuovere idee che nascono come impopolari presso un pubblico scettico. Fin dagli anni del dopoguerra e della Grande Depressione, arrivando fino alle attuali crisi geopolitiche e della globalizzazione, i conservatori hanno compreso il valore di controllare il racconto delle notizie e i contenuti condivisi creando così una percezione manipolata della realtà. Oggi, nonostante sia in grado di formare ampie coalizioni politiche, lo schieramento conservatore rimane ancora impopolare in alcune delle sue idee più estremiste e per questo continua ad acquisire e costruire nuovi media cercando consensi a partire non tanto dal programma politico ma dalla gestione della narrazione dei contenuti.
Etichettare per semplificare
I media americani, in occasione dell’aggresione a Paul Pelosi, hanno tentato in ogni modo possibile di dare un’ “etichetta” politica all’aggressore Depape. Come racconta Jay Caspian Kang sul New Yorker, è iniziata così una vera e propria “caccia” alle informazioni sull’uomo tramite Internet. Inizialmente etichettata come un’aggressione “di sinistra”, l’atto violento di Depape è stato poi identificato come chiaramente “di destra”, sulla base delle sue esperienze di vita, del suo indirizzo di residenza, della sua compagna e dei post complottisti pubblicati sul suo blog. Questo atteggiamento (profiling Reddit) è diventato la risposta tipica di certi giornalisti che credono, attraverso frammenti di informazioni online, di capire la motivazione che ha spinto l’aggressore ad agire oppure il contesto sociale e familiare che lo ha influenzato. Ciò che emerge dall’articolo di Kang è la mancanza di attendibilità di queste “etichette”. Dopo aver individuato un aggressore come "di destra" o "di sinistra", tutte le altre categorie sono superflue e non spiegano affatto il rapporto di causa ed effetto che si vorrebbe comprendere. Forse alcuni giornalisti amano credere che questi pochi frammenti possano essere la chiave per capire la violenza, quando in realtà sono le uniche informazioni che riescono a trovare. Il giornalismo dovrebbe portare luce nell’oscurità, tuttavia il modo di descrivere certi protagonisti di storie violente rivela molto più dei giornalisti che dei reali aggressori. Probabilmente i legami tra malattia mentale, pensiero cospiratorio, retorica di destra e violenza sono solo maldestri tentativi di riportare una realtà molto più complessa. Le etichette servono a semplificare, quasi mai a spiegare. Dunque la domanda che Kang si pone è: “tutti i dettagli di una storia a cosa servono e cosa stiamo davvero cercando di capire?”
Terremoto a MSNBC
Dopo un'escalation di conflitti interni è arrivata la decisione di allontanare Tiffany Cross da MSNBC. Ne parla in un articolo Max Tani su Semafor, che ha tentato di contattare l’ex conduttrice di punta del fine settimana per telefono, non trovando collaborazione. Forse troppo impegnata a rilanciare decine di tweet che criticavano la decisione della rete televisiva e a scrivere un post su Instagram dichiarando il suo sconforto? La scelta segue la regola della tv americana che, da quando Donald Trump ha perso le elezioni, è stata quella di evitare battute e toni forti, mantenendo una condotta “gentile”. Oltre a Cross, i dirigenti di Comcast, che possiede la società madre di MSNBC, la NBCUniversal, hanno espresso disapprovazione verso altri conduttori ritenuti aggressivi. Le mosse recenti illustrano l’obiettivo di MSNBC: raggiungere gli ex telespettatori della CNN. Nel processo, però, la rete potrebbe finire per eliminare alcune delle voci che rappresentano la parte più progressista e che hanno contribuito a conquistare gli spettatori afroamericani. Come riporta Mediaite, il pubblico di Cross era composto per il 35% da afroamericani e due dei programmi che Jones ha tolto dalla trasmissione erano condotti da donne di colore: Tiffany Cross e Zerlina Maxwell. Tra i sostenitori della Cross troviamo Roland Martin, ex commentatore della CNN, che ha dichiarato: “Come si fa a permettere che i propri conduttori vengano attaccati in modo così feroce come ha fatto Tucker Carlson e a non offrire alcuna risposta?”. Indipendentemente dai gusti dei dirigenti di Comcast, cosa vuole il pubblico di MSNBC? E i tentativi di raggiungere il centro eliminando le personalità televisive progressiste verranno vanificati se i repubblicani riconquisteranno il Congresso?
La parabola di Molly Jong-Fast
Da pecora nera di una famiglia intellettuale a star di un ristretto, ma significativo, segmento della politica americana. Questa è la parabola di Molly Jong-Fast, per buona parte della sua vita conosciuta come la figlia della scrittrice femminista Erica Jong, raccontata da Michael M. Grynbaum sul New York Times: l’ascesa di Donald Trump è stata la sua sliding door. Come racconta lei stessa, quando ha capito che il tycoon avrebbe vinto le elezioni, ha iniziato a twittare contro di lui: anche dieci o quindici cinguettii al giorno per esprimere la sua ansia in merito alla prospettiva dell’imprenditore a capo della Casa Bianca; commenti non da esperta di politica, ma densi di stupore e incredulità. Un modello che, tuttavia, funziona: oggi Jong-Fast è corrispondente speciale per Vanity Fair, è seguita da più di un milione di persone su Twitter e tra gli ospiti del suo podcast, “Fast Politics”, figurano il Capo di Gabinetto della Casa Bianca Ron Klain e la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris. La sua ascesa, commenta Grynbaum, è una testimonianza del potere dei social media, dei confini sempre più sfumati tra commentatori “da poltrona” e quelli professionisti e dell’opportunismo di alcuni scrittori, di destra e di sinistra, che stanno usando la presidenza di Trump per reinventarsi. Alcune mail che riceve, racconta lei stessa, dicono chiaramente che i suoi contenuti aiutano a pensare che andrà tutto bene.
La lunga mano di Pechino
Come riporta Grid, gli studenti cinesi all'estero hanno avviato numerose proteste contro Xi Jinping tramite anonimato, costumi e gruppi Telegram. Tuttavia, anche vivendo dall’altra parte del mondo, gli attivisti temono il lungo braccio del PCC. La marcia di Halloween a New York di decine di persone travestite con le tute protettive anti-covid è stato l'ultimo episodio di un'ondata di dissenso che si è estesa a livello globale dopo un raro e coraggioso atto di protesta politica a Pechino il mese scorso, quando un manifestante solitario è salito su un ponte della città e ha srotolato striscioni che chiedevano uno sciopero a livello nazionale per rimuovere Xi e porre fine alla politica zero-covid (vedi Editoriale 100). La protesta del “Bridge Man” si è svolta in un momento particolarmente delicato: la settimana del Congresso del Partito Comunista che ha concesso a Xi il terzo mandato. Lo sciopero nazionale non si è concretizzato, ma l’atto di protesta ha scatenato in Cina una breve raffica di post di sostegno sui social media, prima che la censura li bloccasse, e una risposta molto più ampia da parte degli attivisti cinesi al di fuori dei confini del Paese. Ma se l'attivismo nei campus universitari americani è una routine, i cittadini cinesi che lavorano e studiano all'estero corrono rischi enormi se parlano male del proprio governo. Numerosi rapporti degli ultimi anni hanno infatti dimostrato che il governo controlla da vicino gli studenti e i dissidenti all'estero e che questi possono subire minacce e arresti se tornano in Cina. Tutto ciò significa che le recenti proteste in tutto il mondo sono significative e rappresentano un vero atto di ribellione.
Google, trick or treat?
Un'indagine di ProPublica svela come l’Ad Business di Google abbia inserito annunci di marchi importanti su siti web globali (non in lingua inglese) che diffondevano in Europa, America Latina e Africa false affermazioni su argomenti come vaccini, COVID-19, cambiamenti climatici ed elezioni. Contrariamente ai social network, Google non è stata sottoposta allo stesso esame relativo alla lotta alla disinformazione, spiega lo studio. Quello di Google è dunque un algoritmo che non garantisce un controllo meticoloso dei contenuti. Ma perché così tanto proliferare di fake news? La risposta è da ritrovare nel fatto che sono molto più redditizie delle notizie vere e, poiché il posizionamento delle inserzioni è automatizzato, molti grandi brand finanziano inconsapevolmente i siti di disinformazione (vedi Editoriale 54).
Futuro in sospeso per il giornalismo mondiale
Negli ultimi anni, nel mondo del giornalismo si è affermato un trend ormai consolidato: moltissime redazioni fanno parte di associazioni o aziende no-profit per usufruire di un escamotage giuridico e far sì che la tassazione rientri nell’ambito della pubblica utilità. Per le redazioni, infatti, l’unico modo per sopravvivere alla crisi della carta stampata del XXI secolo è quello di essere acquisiti o far parte di associazioni no-profit che, come rivela una ricerca di NiemanLab, negli ultimi 5 anni hanno ottenuto ricavi esorbitanti; basti vedere i profitti dell’Institute for Nonprofit News (INN), di Lion Publishers e Knight Foundation. NiemenLab suggerisce di limitare le risorse alle testate più meritevoli in modo da garantire la sopravvivenza almeno di parte di esse. Sono passati più di sei anni da quando il Post si domandava se il futuro del giornalismo fosse il no-profit: oggi, considerando la crisi galoppante che il giornalismo in tutto il mondo sta ancora affrontando, forse la soluzione deve essere ancora trovata.