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Editoriale 101

La comunicazione sui media
03 - 09 ottobre

12 ottobre 2022

L’ombra dei “dark-money thinktanks”. Perché non si creano echo chamber politiche su Twitter. La diplomazia di Musk. Fine della festa per i politici americani. La semilibertà di stampa in Iran. Fact-checkers uniti. Cultura pop e soft power.

La Redazione


L’ombra dei “dark-money thinktanks”


Secondo quanto riporta The Guardian, l’ombra dei “dark-money thinktanks”, delle grandi compagnie petrolifere, del tabacco, del cibo spazzatura, sembra avvolgere la neo prima ministra inglese Liz Truss. Questi gruppi sono stati classificati dalla campagna Who Funds You? tra i meno trasparenti di tutti quelli su cui ha indagato ma che sono in grado di influenzare le linee del governo britannico. A far scalpore però è lo spazio che l’emittente BBC ritaglia per spokeperson di queste multinazionali e aziende, chiamati a commentare l’operato di un governo di cui sono i principali manovratori. Un esempio è quello della Taxpayers' Allianc, un gruppo di pressione del Regno Unito nato nel 2004 per promuovere una società a bassa tassazione, che si batte da tempo anche per eliminare il canone della BBC. Una tendenza che si può ritrovare anche nei media americani (vedi Editoriale 78) e nella politica statunitense. Se da un lato le opinioni su Biden su Fox News sono negative, ritenendo l’emittente una minaccia all’unità della democrazia americana, dall’altro lato però la stessa Casa Bianca collabora di tanto in tanto con quella rete che si fa portavoce del suo operato.



Perché non si creano echo chamber politiche su Twitter


Un nuovo articolo sulla rivista Science Advances spiega i motivi per i quali su Twitter non si creano echo chamber politiche. Come riportato da NiemanLab, lo studio racconta come la maggior parte delle persone non segua un gruppo di “élite” politiche su Twitter, ma per lo più persone con cui si trova d'accordo politicamente. I conservatori seguono molti più conservatori, i liberali seguono molti più liberali e, quando si tratta di retweet, è ancora più probabile che le persone condividano i tweet dei loro alleati politici piuttosto che dei loro avversari. E quando le persone ritwittano i tweet degli avversari lo fanno per criticarli; i conservatori lo fanno più dei liberali, nel complesso. Ma lo studio rivela anche che la maggior parte delle persone non segue gli account incentrati sulla politica e la maggior parte di coloro che si interessano ne seguono solo alcuni, dimostrando come la massa usufruisca del social network soprattutto per intrattenimento. Quando si tratta di seguire schemi non c'è praticamente alcuna differenza tra sinistra e destra. Per ogni account “rivale” seguito, i partigiani di entrambe le parti ne seguono otto politicamente affini ma quando si tratta di retweet, le distinzioni crescono. I liberali ritwittano account politicamente affini circa dieci volte più spesso dell'altra parte ma i conservatori lo fanno quasi ventidue volte più spesso. Un dato interessante è che la maggior parte degli utenti di Twitter non segue né interagisce con le élite politiche online. Ciò dimostra una dicotomia tra l'uso d'élite di Twitter - politici, esperti e media (e anche accademici) - e l'uso di massa di Twitter. La discussione d'élite sulla piattaforma è importante ma non è necessariamente osservata direttamente dalle masse. Tutto ciò a dimostrazione che la maggior parte delle persone su Twitter non vive in una echo chamber politica. Ma questo perché alla maggior parte delle persone non interessa abbastanza la politica per costruirne una e alimentarla.



La diplomazia di Musk


Due articoli di The Economist riflettono sui crescenti superpoteri tecnologici di Elon Musk che gli hanno conferito una responsabilità politica, con la quale vuole cambiare il corso della storia. Sono già noti, infatti, i suoi interventi sull’emergenza climatica e sul creare una civiltà su Marte. Ultimamente, il fondatore di Tesla e SpaceX si è esposto anche sulla guerra in Ucraina, suggerendo su Twitter un “piano di pace” per porre fine alla guerra. Le proposte sembravano rispecchiare i punti di vista del Cremlino, esortando l'Ucraina ad accettare l'annessione della Crimea da parte della Russia, ad escludere l'adesione alla Nato e ad acconsentire a nuove votazioni sulla secessione nelle parti del Paese occupate dalla Russia. I seguaci di Musk sono stati poco entusiasti così come il presidente ucraino Zelensky, che ha chiesto ai suoi 6,7 milioni di follower se preferissero un Musk favorevole alla sua nazione o alla Russia, ricordando l'influenza di Twitter nel plasmare la percezione globale della guerra. I funzionari ucraini, nel frattempo, stanno prendendo sul serio l'iniziativa di Musk, credendo che il suo piano sia frutto di una comunicazione con il presidente russo Putin. Le riflessioni politiche del famoso imprenditore su Twitter, quindi, hanno un reale peso geopolitico? Di per sé no, ma, dato il ruolo della piattaforma nel mondo della politica, le sue decisioni sul social (come quella di ripristinare o meno l'accesso a Donald Trump) avranno molta più importanza, così come quelle su Starlink. È senz’altro preoccupante che un uomo possa scegliere se estendere l'accesso a Internet a qualsiasi punto della Terra, decidere chi può usarlo e spegnerlo a proprio piacimento.



Fine della festa per i politici americani


Le testate di proprietà di Alden Global Capital, il secondo editore di giornali più grande degli Stati Uniti, non sponsorizzeranno più i principali candidati politici nelle loro pagine di opinione. Le pubblicazioni della società informeranno i lettori che smetteranno di dare visibilità ai candidati alle elezioni presidenziali, al Senato e al governo. Come spiega il New York Times, Alden Global Capital possiede circa duecento giornali negli Stati Uniti, tra cui The Chicago Tribune, The New York Daily News e The Denver Post. I giornali americani hanno una lunga tradizione nel dare spazio nei loro articoli ai candidati politici ma negli ultimi anni alcuni hanno messo in dubbio la pratica o hanno deciso di rinunciarvi del tutto. Nell’editoriale del gruppo Alden Global Capital si può leggere che “con la disinformazione in aumento, i lettori sono spesso confusi, soprattutto online, sulle differenze tra notizie, articoli di opinione ed editoriali". È quanto emerge anche dallo studio pubblicato su Journalism and Mass Communication Quarterly, ripreso da NiemanLab: i lettori prestano poca attenzione alla distinzione tra fatti e opinioni.



La semilibertà di stampa in Iran


Come spiega il Columbia Journalism Review, dal giorno dei funerali di Amini le proteste dalle regioni curde dell'Iran si sono diffuse in tutto il Paese.  Tra i primi reporter a raccontare la morte di Amini Niloufar Hamedi, giornalista del quotidiano Shargh di Teheran, arrestata pochi giorni dopo dagli agenti del Ministero dell'Informazione iraniano che hanno fatto irruzione a casa sua. Il Committee to Protect Journalists ha contato, dall’inizio delle proteste fino alla scorsa settimana, ventotto giornalisti arrestati e, poiché le autorità hanno tolto l’accesso a internet alla popolazione, non è sempre facile verificare la quantità degli arresti o minacce subite. Le insidie alla libertà di stampa in Iran poggiano su basi etniche e di genere, non a caso nell’ultimo World Press Freedom Index, classifica annuale stilata da Reporter senza frontiere che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 paesi del mondo, l’Iran si trova al 178esimo posto. “Le donne hanno una presenza significativa nella stampa e nei giornali iraniani, ma sono bersaglio di tutti i tipi di molestie, dal phishing di e-mail alle minacce di stupro e di omicidio”, afferma Fahimeh Khezr Heidari, giornalista iraniana che ha lavorato nel Paese per dieci anni prima di fuggire per le minacce ricevute. Le donne, come spesso accade, sono le prime vittime di una politica oppressiva, esempio è la Cina (vedi Editoriale 97) che ha sfruttato le proteste per le restrizioni della pandemia per aumentare il controllo sui media e limitare i diritti. Le idee misogine e autoritarie, in questo modo, non fanno altro che radicalizzarsi e le speranze di una piena libertà di stampa e di azione delle giornaliste si assottigliano.



Fact-checkers uniti


In vista della stagione elettorale del 2023, in Nigeria numerose organizzazioni africane di fact-checking si sono coalizzate per massimizzare il proprio impatto nel più popoloso tra i Paesi del continente, con oltre 200 milioni di abitanti. Come racconta Poynter, questa recente coalizione ha inviato una lettera ai politici nigeriani, in cui avverte del preoccupante aumento della disinformazione, definendola una “tendenza pericolosa”, e invitando ad una maggiore trasparenza e correttezza nelle relative campagne elettorali. Una tematica resa più urgente dal recente declino della coesione sociale nel paese, diviso a livello etnico, politico, economico e religioso, mettendo a rischio la convivenza pacifica nella società. A dimostrazione dell’importanza di una maggiore e puntuale verifica dei fatti, le organizzazioni di fact-checking hanno portato l’esempio dell’ascesa politica di Bolsonaro in Brasile, ove la circolazione di foto falsificate e il flusso incontrastato di fake news influenzarono pesantemente il voto popolare. Un monito per i politici nigeriani le cui affermazioni saranno pertanto costantemente poste a un vaglio critico.



Cultura pop e soft power


La cultura pop oggi è multipolare e i social media hanno giocato un ruolo fondamentale in questa trasformazione. A sostenerlo è The Economist, partendo dalla cultura sudcoreana: il successo del k-pop, di Parasite e Squid Game - quest’ultimo forse il più emblematico - (vedi Editoriale 53) è solo parte di un fenomeno più ampio, documentato dai dati. La testata ha infatti esaminato quelli relativi allo streaming di musica su Spotify: in Paesi come India, Indonesia e Corea del Sud la condivisione di brani in inglese nella top 100 è scesa dal 52 al 31% negli ultimi cinque anni, e dal 25 al 14% in Spagna e America Latina. Non sono diversi i numeri registrati per film e serie TV: secondo le stime di FlixPatrol, mentre nei Paesi anglofoni tra l’80 e l’85% dei programmi più popolari è nordamericano, in Argentina, Brasile e Colombia questi contenuti sono solo circa la metà tra quelli più visti, mentre in Giappone e Sud Corea la percentuale scende al 35%. Un ruolo di primo piano in questo processo, che coinvolge Paesi in via di sviluppo, è riconosciuto a Internet: ad esempio, grazie alla Rete l’influencer e tiktoker italo-senegalese Khaby Lame ha potuto fare conoscere se stesso e i suoi video, e sempre su Internet la casa discografica e di produzione cinematografica indiana T-Series ha raggiunto 226 milioni di iscritti, il numero più alto mai registrato. Non ne è immune, infine, neanche il mondo della moda: secondo Launchmetrics, quest’anno tra le dieci celebrities che parlavano della Paris Fashion Week che hanno dato più boost all’advertisting la metà veniva da Paesi emergenti, e di americane non ce n’erano. Ma sono solo canzonette? Non proprio, conclude l’articolo: come diceva, in un contesto molto differente, Andrew Breitbart, la politica è a valle della cultura. E grazie alla pop culture Seoul può sostituire Londra come città dei sogni. Siamo di fronte, insomma, a una forte manifestazione di soft power.

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